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1997. Copertina editoriale in brossura pieghevole elettata. 448 p.; Ill.; 23 cm GQ,1 . 448. . Ottimo (Fine). . . .
recensione di Cresto-Dina, P., L'Indice 1998, n. 5
Dal punto di vista del contenuto il libro di Eisenberg è una ricostruzione antropologica e storica delle trasformazioni indotte nel campo dell'esperienza musicale dall'avvento della riproduzione fonografica. L'intenzione saggistica è felicemente calata in una forma espositiva libera da vincoli sistematici e attenta piuttosto a conferire densità espressiva alle proprie immagini e rafforzare, anche grazie all'apporto documentario e alla precisione dei riferimenti discografici e bibliografici, l'efficacia delle singole riflessioni. Alle spalle vi è probabilmente l'arte, nota al mondo culturale anglosassone, di discutere argomenti complessi al di fuori degli schemi consueti della produzione accademica e scientifica, in forme letterariamente interessanti e accessibili a un vasto pubblico di lettori colti.
Se soltanto un'analisi approfondita potrebbe testimoniare in quale misura questo spirito sia penetrato in tutte le pieghe del testo, un'idea approssimativa dell'originalità della concezione emerge già dalla struttura dell'insieme. Il discorso viene in più punti scandito da interludi nel corso dei quali l'autore rinuncia alla pur relativa linearità della riflessione principale per animare il ritratto di figure reali, comuni abitanti della sua New York, ciascuno dei quali appare segnato in misura radicale e definitiva da una peculiare esperienza con il mondo della discografia e dell'ascolto musicale: si tratti del personaggio di Clarence, il collezionista di ottocentomila dischi che vive in povertà e trasfigura la propria innata tendenza al consumo sciogliendola da ogni prospettiva utilitaria, o dell'ex pianista Nina, che si è esercitata nell'ascolto domestico fino al punto di trasformarlo in un gesto insieme catartico e creativo, un surrogato di quella funzione espressiva che l'atto del suonare non sembra più assicurarle.
Ma questi e simili casi non fanno che fissare in termini estremi, isolandone le condizioni pure, un tipo di esperienza che nel nostro tempo è divenuta la forma più diffusa di avvicinamento al mondo dei suoni. Il disco è anzitutto merce, oggetto, il prodotto più evidente di una reificazione in atto. Ma in secondo luogo - è la tesi di Eisenberg - anche la via d'accesso a una più elevata finalità sociale della musica. Semplificando un po' gli esiti del dibattito estetico sul simbolismo musicale e sulle sue strutture comunicative, l'autore riconduce il significato espressivo della musica alla sua capacità di oggettivare e quindi temporaneamente allontanare certi nostri stati mentali, ovvero alla sua funzione catartica nei confronti delle emozioni (di qui l'allusione ad Aristotele, contenuta nel sottotitolo delle edizioni italiana e inglese ma non in quella originale americana). Sono proprio gli amanti del fonografo coloro che in maggior misura hanno appreso l'arte del giusto accostamento fra musica e stato d'animo, persuasi che "anche gli umori più indefinibili" debbano avere da qualche parte "un disco che li esprime alla perfezione". Non necessariamente si tratta di un atteggiamento passivo.
Alla diffusa convinzione che solo al compositore e all'interprete sia dato esprimere qualcosa di loro stessi Eisenberg non si limita a opporre l'idea di un ascolto espressivo, ma anche il postulato secondo il quale "solo chi ha la giusta sensibilità musicale riesce ad esprimersi nell'ascolto". Il fonografo ha trasformato in un fatto quotidiano quella che fino al secolo scorso era per molti un'esperienza tutt'altro che frequente e ha messo a disposizione dell'ascoltatore un repertorio musicale pressoché infinito. Ogni disco finisce per essere un microcosmo: l'ascolto tra le pareti domestiche, diversamente dal concerto, può favorire uno stato di sospensione spaziotemporale che Schopenhauer avrebbe interpretato come imporsi della musica quale realtà vera, al cospetto della quale il mondo dei fenomeni (l'arredo, un lembo di tappeto, il disco stesso nella sua cosalità) è destinato a rivelarsi come mera parvenza, velo di Maya. E molto opportunamente l'autore cita il brano di "Enten-Eller" nel quale Kierkegaard fa dipendere l'effetto del" Don Giovanni" dalla più totale assenza di distrazioni visive: "Ho cercato nel teatro un cantuccio per potermi nascondere completamente in questa musica (...)Sto fuori nel corridoio, m'appoggio al tramezzo che m'esclude dai posti degli spettatori, ed è allora che la musica ha il suo effetto più forte".
Certo, per il filosofo danese il contatto con l'opera mozartiana aveva ancora i tratti dell'eccezionalità ed evocava tutta una serie di disposizioni percettive estranee alla sfera del quotidiano. Diversa è senza dubbio la nostra posizione di fronte allo scaffale di casa. La possibilità di compiere in ogni istante la scelta del mondo nel quale desideriamo trascorrere la mezz'ora successiva non nasconde forse il rischio della banalizzazione? Davvero l'odierna disponibilità di musica è un fattore di libertà? Verrebbe piuttosto da chiedersi se la catarsi stessa non sia destinata ad assumere un significato inevitabilmente regressivo quando si trasformi in un prodotto di massa.
Sono domande che Eisenberg affronta anche in relazione al carattere ritualistico dell'ascolto discografico e al problema della riproducibilità dell'opera musicale. L'integrazione della musica nel contesto del rituale è un fatto documentato in molte culture. Si deve però osservare che il rituale discografico, a differenza di quello tradizionale, non tollera varianti. La musica contenuta in un disco non può che ripetersi sempre uguale.
Anche ammesso, pertanto, che si sia disposti ad accettare una così decisa attribuzione di implicazioni ritualistiche alla nostra esperienza della musica, resta aperta la domanda circa il senso che il rituale può assumere in una civiltà musicale secolarizzata, nella quale l'ascolto ha assunto significati prevalentemente profani e si esercita in gran parte attraverso sofisticati mezzi di riproduzione meccanica. Delle forme odierne di fruizione Eisenberg sottolinea due aspetti. In primo luogo il rituale è divenuto un rituale privato, che coinvolge i nostri ascolti domestici non solo, ad esempio, quando ascoltiamo il "Messia" di Händel il giorno di Natale, ma ogni volta che ci sforziamo di non svilire con ascolti casuali dischi che occupano un posto speciale nella nostra vita. In secondo luogo, attraverso il fonografo "tutta" la musica ha riacquistato quel legame col mondo della vita che nelle società tradizionali si identificava con l'azione normativa del contesto comunitario. Questa la sintesi dell'autore: "Con il fonografo la musica di ogni genere - sacra, profana, d'arte, d'intrattenimento, ricuperata da culture presenti e passate - viene iniettata nella vita di tutti i giorni. Dal punto di vista del contesto non c'è più nulla di sacro; tutta la musica è profana. Dal punto di vista dell'esecuzione invece tutta la musica è sacra, poiché il fonografo la riproduce sempre nello stesso modo".
Ma se la riproduzione meccanica facilita il rituale privato, è altresì evidente il pericolo che la ritualità che scandisce la nostra esistenza si trasformi in una semplice sintassi del quotidiano. La banalizzazione accompagna tutta la musica di sottofondo e "il disco rimasto a girare sul piatto per un'intera estate può diventare una droga". In fondo non sembra neppure che Eisenberg voglia sostituire le potenzialità catartiche dell'ascolto fonografico, come forma rituale adeguata al nostro tempo, a quella sorta di rituale irrigidito rappresentato dalla società dei concerti. Certo, non si può fare a meno di osservare come sia proprio quest'ultima una delle forme attraverso le quali in Occidente la musica si è allontanata dalla vita. Ma soprattutto nell'interludio dedicato al personaggio di Saul - quasi un pentito dell'alta fedeltà - riaffiora il sospetto che il piacere trasmesso dai dischi non possa in alcun caso eguagliare quello dischiuso dalla vita reale, per esempio dall'intensità di un'esecuzione dal vivo, né possa far dimenticare "la forza, l'energia tremenda che un gruppo esercita sull'individuo". E così questo libro stimolante e intelligente si conclude in modo tutto sommato aporetico, sollevando più dubbi di quanti non ne sciolga e lasciando aperte tutta una serie di domande alle quali indagini tematicamente più circoscritte sapranno forse fornire qualche parziale risposta.
Non si deve infatti dimenticare che una delle caratteristiche del libro è la vastità dell'orizzonte considerato. Se sul piano dei generi musicali si spazia dalla musica classica al rock, dalle tradizioni etniche al jazz (nei confronti del quale il disco ha assunto per l'autore una peculiare funzione legittimante), sul piano del dibattito delle idee la riflessione muove da Platone e Aristotele per giungere fino alle teorie estetiche di Eduard Hanslick e Susanne Langer. Ragguardevole è la documentazione sulla storia della fonografia, che abbraccia l'intero arco del nostro secolo, dal lancio commerciale del fonografo Victrola nel 1906 fino al discusso tramonto del vinile e alla recente diffusione del compact disc. In questa vicenda, tra i nomi dei produttori, degli ingegneri, dei tecnici e dei musicisti, spiccano i profili di alcune grandi "icone fonografiche": Enrico Caruso, Louis Armstrong, Leopold Stokowski, personaggi il cui itinerario artistico ha coinciso in misura notevole con il processo di affermazione della fonografia presso il grande pubblico e con le tappe del suo graduale perfezionamento tecnico.
Merita un elogio il lavoro dell'editore. L'apparato delle note bibliografiche e discografiche è stato allestito con molta cura: la sistematica integrazione dei dati relativi ai testi citati dall'autore con le indicazioni di pagina delle edizioni italiane disponibili è una semplice prassi, che tuttavia stenta ancora a imporsi presso un gran numero di editori il cui prestigio scientifico non viene normalmente messo in discussione.
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