La figura di Jean-Paul Sartre continua ad essere oggetto di studio, mentre le sue opere sono costantemente lette come segno di un'epoca e come testimonianza di una cultura che fece dell'impegno sociale e politico la specificità di un esistenzialismo disincantato ma non rassegnato.
In questa direzione è apparso utile riproporre un testo, come quello di Giovanni Invitto, che, pubblicato alla fine degli anni Ottanta, incontrò subito l'attenzione non solo degli addetti ai lavori, ma anche di un pubblico che voleva accostarsi ad un pensiero e ad un intellettuale segnato da contraddizioni tanto clamorose quanto apparenti, da un immoralismo provocatorio quanto falso, da una eversione filosofica più concettuale che lessicale. Lo scritto che qui si ripropone, ritenuto tra i più significativi mai apparsi su Sartre in Italia (vedi "La Repubblica" del 22 marzo 2005), riprende temi oramai divenuti caratteristici della teoria sartriana come l'universo "ludens" e la morale camuffata, le dialettiche della violenza che si manifestano nello sguardo, la fenomenologia del silenzio, la ribellione in nome del Nulla. Ma il volume ritesse anche in una coerente lettura schegge di discorsi che Sartre aveva elaborato negli ultimi venti anni, mentre si dedicava alla scrittura de L'idiot de la famille, opera mastodontica dedicata a Flaubert, e che l'autore già sapeva che non sarebbe mai stata letta da coloro con cui e per cui viveva e agiva: i giovani del Movimento e della Cause du peuple.
La postfazione dell'autore dà conto del punto a cui è pervenuta oggi la letteratura su Sartre, ricucendo circa vent'anni di critica nei quali l'immagine dell'intellettuale delle caves e del premio Nobel rifiutato perché premio"borghese", si è arricchita di ulteriori dettagli ma ha confermato le proprie caratteristiche teoretiche, etiche, politiche.
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