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Non si riferiva alla passione odierna dei turisti per fotografie e souvenir, Vernon Lee, quando sosteneva che l'emozione estetica data da un paesaggio non si risolve in un istante, ma rimanda a un cantuccio della memoria assieme individuale e collettivo. Era questa infatti la scommessa degli inglesi che già l'avevano preceduta nel Grand Tour in Italia: da Thomas Coryat, sempre in caccia di crudities pittoresche, a Joseph Addison e William Beckford, che si orientavano con le notizie non proprio up to date sparse nei versi di Silio Italico. Nonostante lo sviluppo del turismo, in quanto batailliana dépense depotenziata, abbia portato con sé una minaccia di immoralità e indifferenza, Rossana Bonadei sostiene che la scrittura odeporica può forse riprodurre ancora l'avventura del conoscere, se racconta il viaggio sentimentale di chi mescola con leggerezza esperienza dei sensi e finzione narrativa, al modo di Lawrence Sterne. Gli studi più recenti sul turismo, del resto, come The Tourist Gaze di John Urry, riprendono le teorie di Hans Magnus Enzensberger per rivalutare i viaggi di piacere e rimarcarne i risvolti antropologici. Seguendo le orme di un paradosso dei Miti d'oggi di Roland Barthes, per cui uno scrittore è anche sempre un vacanziere, l'opposizione fra turista e viaggiatore andrebbe allora superata: al disdegno di Stendhal, scrittori come Javier Marías o Michel Houellebecq hanno sostituito la consapevolezza che turisti si resta comunque. Affine al loro nomadismo intellettuale è il consiglio di lettura che ci lascia Rossana Bonadei, lo Yoga for People Who Can't Bothered to Do it (2003) di Geoff Dyer, tradotto in Italia da Mondadori: un po' troppo post-tutto, ma con il pregio di riallacciare la mappa del mondo a quella del sé.
Luigi Marfè
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