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Le idee e le cose. La teoria della percezione di Descartes - Elisa Angelini - copertina
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Descrizione


A quali condizioni la percezione è una rappresentazione della realtà e non una semplice finzione della mente o un sogno? Interprete privilegiato della rottura con il paradigma della somiglianza tra idee e cose che aveva lungamente garantito al pensiero un legame rassicurante con il mondo, agli inizi dell'età moderna Descartes esplora i luoghi e le metafore della dissomiglianza, dalla geometria alla grafica, dalla prospettiva al linguaggio, con un percorso che attraversa tutte le sue opere. Sarà proprio il paragone con il linguaggio a trasformare il rapporto tra idea e realtà in una relazione drammaticamente aperta alle insidie dello scetticismo e dell'idealismo. Tra interessi scientifici e domande filosofiche, Descartes intreccia la teoria della percezione con tutti i grandi temi del suo pensiero, non ultimo il dualismo mente-corpo, nel tentativo faticoso, ma convinto, di coniugare dissomiglianza e realismo. Un tentativo affascinante anche agli occhi dei filosofi che, poi, lo ritennero fallito, da Foucher a Bayle, da Reid a Russell, da Ryle a Foucault.
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Dettagli

2007
20 gennaio 2007
272 p.
9788846716699

Voce della critica

La tesi centrale di questo libro, ben scritto e ben argomentato, può essere così riassunta: in tutta la sua filosofia Descartes si è attenuto a una posizione di realismo percettivo, che gli ha consentito tanto di sfuggire alla tentazione idealistica quanto di rispondere in modo convincente e riuscito alla sfida dello scetticismo. Come scrive l'autrice, "al termine delle Meditazioni la prova dell'esistenza dei corpi mostra Descartes impegnato a sciogliere, una volta per tutte, le riserve scettiche sulla realtà del mondo esterno e sostenere, contro possibili fenomenismi percettivi, che le idee sono la via di accesso alle cose".
Nella prima parte del libro, dedicata alle Regulae e alle opere scientifiche, il nodo principale è l'abbandono del principio di somiglianza tra la rappresentazione e la realtà, principio che era stato alla base del "realismo" aristotelico. Mettendo a frutto analisi tra loro molto diverse, ma convergenti nelle loro conclusioni, come quelle di Foucault e di Marion, Elisa Angelini sottolinea il fatto che in queste prime opere, e soprattutto nella Dioptrique, elementi di iconismo sopravvivono accanto all'accentuazione della dissomiglianza strutturale tra percezione e realtà. Questa singolare convivenza è a sua volta il segno di una posizione non ancora perfettamente matura. Da un lato, il modello delle immagini interne rischia di rendere inaccessibili gli oggetti esterni, di trasformare la mente in un teatro di immagini, di presupporre occhi interni in grado di guardarle. Sarebbe stato questo il peccato originale della filosofia moderna, imprigionata nel rappresentazionismo della mente come "specchio della natura", secondo l'immagine resa famosa dal libro di Rorty. Dall'altra parte, Descartes sembra vedere "alcune possibili implicazioni scettiche e idealistiche del principio che l'idea non somiglia all'oggetto e alla qualità che rappresenta". Il famoso passaggio sulle taille-douces mostra come Descartes conservi un residuo di somiglianza, regolato dal codice prospettico, per salvaguardare un rapporto di corrispondenza che a sua volta garantisce l'attendibilità della rappresentazione rispetto alla realtà.
Accanto alla via meccanicistica, che rende ragione della percezioni sensibili in termini di causalità materiale, Descartes ha percorso altresì il cammino della riflessione metafisica: quest'ultima si è concretata (soprattutto nelle Meditazioni e nelle annesse obiezioni-risposte) in un'accurata indagine del valore del giudizio di percezione (celebre la distinzione di tre differenti gradi del senso nelle Seste risposte). Su questo aspetto si concentra soprattutto la seconda parte dello studio di Angelini. Con finezza di analisi e ricchezza di riferimenti, l'autrice rileva che "l'elemento che nella conoscenza percettiva eccede l'apprensione sensibile appartiene all'intelletto" e che di conseguenza, "il problema dell'errore si gioca per intero sul piano dell'intelletto, quanto alla correzione, ma anche e soprattutto quanto alla genesi dell'errore". È impossibile qui considerare per esteso le acute analisi dedicate, per esempio, al problema della distanza e della geometria naturale, o al celebre trattamento del "pezzo di cera", o al complesso confronto-scontro con Gassendi (che riguardò sia l'innatismo sia lo statuto delle entità geometriche). Il capitolo finale (Il realismo percettivo di Descartes: dall'io al mondo esterno) riprende le fila del discorso e lo conduce al suo esito naturale (nell'economia della filosofia cartesiana): una sorta di riscatto del "sentire", che nella VI Meditazione non è più la coscienza di sentire, l'atto riflessivo e autoreferenziale della II Meditazione, bensì torna a essere il sentire della I Meditazione, cioè il percepire mediante i sensi, ma questa volta "metafisicamente garantito e messo al riparo da ogni possibile dubbio".
In conclusione, vorremmo qui soltanto accennare a un paio di punti su cui la coerenza del discorso cartesiano, pur così compatta in tutte le sue articolazioni, lascia tuttavia trasparire le faglie su cui si riaprirà il "processo" alla idea-rappresentazione, dalla disputa Malebranche-Arnauld per giungere sino a Bayle e Reid. Il primo punto riguarda il rapporto tra intelletto e volontà nel giudizio percettivo, e in generale nella formazione delle credenze (come quella che porta sulla presunta somiglianza tra qualità percepite e qualità reali). Anche se i passi delle Seste risposte analizzati da Angelini, che riguardano la realtà esterna (de rebus extra nos), attribuiscono esplicitamente all'intelletto ciò che abitualmente viene riferito al senso, resta tuttavia il problema di conciliarli con la ben nota teoria cartesiana dell'origine volontaria del giudizio, teoria ampiamente esposta nelle stesse Meditazioni. Tale questione non è esaminata in questo volume, ma è ben noto che proprio sulla particolare "teodicea" cartesiana dell'errore si incentrerà tutto un aspetto (quello esemplarmente rappresentato da Bayle) della rinascita dello scetticismo, con la rimessa in discussione dell'inclinazione naturale che ci porta a credere nell'esistenza esterna (problema ripreso da Hume) e il rilancio del fenomenismo percettivo a partire dall'indistinzione tra qualità primarie e secondarie.
A differenza del primo, il secondo punto è invece tematizzato da Angelini e riguarda la natura "reale" del realismo cognitivo di Descartes: in altri termini, si tratta di realismo diretto o indiretto? Su questo punto, l'autrice registra una certa ambiguità del testo cartesiano, anche se tende ad ascriverla più che altro all'uso del lessico scolastico, non sempre così chiaro malgrado l'apparente precisione tecnica. Paradossalmente, la verità sembra stare nel mezzo: "Rispetto al fatto che è sempre per il tramite dell'idea che percepiamo le cose, ossia che le percepiamo nella forma dell'idea o in una rappresentazione, l'accesso al mondo esterno può considerarsi in qualche misura indiretto. Letti in questo modo, realismo diretto e realismo rappresentativo possono definire entrambi la teoria della conoscenza delle Meditazioni". Non la penseranno così i successori di Descartes, che riapriranno la disputa là dove Descartes sembra averla lasciata un po' nel vago; finiranno così per vedere nella rappresentazione non solo un tramite, ma anche un ostacolo (il famoso "velo delle idee"). Anche per questa via lo scetticismo riprenderà nuovo fiato dopo la "soluzione" cartesiana.
Gianni Paganini

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