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Assaporando una scorrevole prosa ritmata di rara qualità poetica, il lettore intraprende assieme a Penelope un viaggio (reale? Onirico?) alla volta dell'ignoto, attraverso i principali temi dell'esistenza: l'amore, il destino, la ricerca di sé, la maternità, la morte. In un toccante ritratto di coraggio al femminile, l'autrice, lontana dallo sterile pregiudizio e dalla cieca condanna, attinge alla fonte omerica e al proprio indiscutibile genio per creare un'originalissima e quantomai opportuna versione della tessitrice itacese, spinta alla ribellione dalle lunghe assenze e dai continui tradimenti del marito-eroe. Nonostante la rivolta del suo spirito, Penelope non tenta però mai di superare il limite imposto dal dio ai mortali, e proprio la sua estrema umiltà, il giusto senso della misura, al bisogno sapranno garantirle preziosi aiuti ed insperati interventi esterni. Per lei -e grazie a lei- assistiamo dunque al probabile sovvertimento di antiche profezie, all'evoluzione inattesa di alcune figure considerate pilastri immutabili nella storia della mitologia classica, quali ad esempio la Sfinge. O è il nostro sguardo, forse, che verso dopo verso si abitua a spaziare libero su preesistenti orizzonti mai esplorati? Certo l'autrice insegna a spingerci oltre, a considerare il dubbio e il timore come preziosi punti di forza a partire dai quali dispiegare l'enorme potenziale del nostro animo; accettare la nostra natura di mortali, perché questo siamo e dobbiamo rimanere, senza per questo rinunciare ad ottenere la saggezza. Perché in "Penelopeia", come nel labirinto del feroce Minotauro, ci si salva: nessuna condizione è irreversibile, ma ci si salva a patto di non perdere il filo. In un mondo dove finalmente non esistono più uomini o donne, ma solo esseri umani, è tenendo stretto il gomitolo della ragionevolezza che riusciremo a riconoscere i mostri, ad amarli come indifesi bambini partoriti nel buio della nostra follia.
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