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Su quell'anno-evento che fu il Sessantotto non è facile trovare voci che espressero a caldo l'opinione della cosiddetta "maggioranza silenziosa", specialmente là dove fu quasi subito vittoriosa. Il riferimento è alla Francia e alla rapida conclusione di quello stato di effervescenza insurrezionale, prerivoluzionaria, che si concentrò ed esaurì nel joli Mai. Le pagine di Aron mostrano di prendere molto sul serio l'intento rivoluzionario della contestazione studentesca, e, a suo avviso, a recitare una parte al contempo ridicola e irritante fu soprattutto l'intellighenzia francese. Sotto questo profilo, il testo uscito nell'estate del '68, e tradotto solo ora in Italia, riprende temi e toni di un'altra celebre opera aroniana, L'oppio degli intellettuali. All'interno di una società prossima alla post o iper-modernizzazione riemerse dunque il vizio-vezzo di incitare alla rivolta collettiva, battezzando subito qualsiasi manifestazione di disagio e protesta sociale con il nome di rivoluzione, in memoria del mitico 1789. Anche qui Aron intese combattere "più per delle idee che contro gli uomini". Ciò che letteralmente lo indignò fu la "irragionevolezza", comprensibile in studenti ventenni, inaccettabile se a farsi propalatori di negazione e distruzione rivaleggiavano professori e intellettuali tesi a compiacersi nel proprio "nichilismo da esteti". Anche perché il vulnus prodotto sarebbe rimasto a lungo. Non mancano pagine sulla dinamica che portò all'incendio del maggio parigino, che svelano quanto fragile sia l'ordine liberal-democratico. Senza un relativo livello di disciplina volontaria l'ordine politico cede. Ancora oggi, "desacralizzare" il culto della sovversione aiuterebbe quindi le democrazie rappresentative. Democrazia e realismo, questa la ricetta di Aron. Danilo Breschi
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