La storiografia fotografica ha una vicenda tutta sua. Mentre gli studi storici, da quelli sul medioevo a quelli sull'età contemporanea, venivano "illuminati" dalle provocazioni della scuola delle "Annales", che proponevano nuove fonti e nuove metodologie (ma con scarsi esiti riguardo a un documento come quello fotografico), il mondo degli studi sull'immagine ottica, anche per influenza fin dal 1937 del leggendario e pionieristico curatore del Moma newyorkese Beaumont Newhall, preferiva rimanere tra le pareti rassicuranti della galleria dei grandi maestri, autori di un repertorio canonico di capolavori, influenzando peraltro singole fortune critiche. Solo alla fine dello scorso secolo gli storici iniziarono a guardare alla fotografia come a un fenomeno socioculturale complesso. L'Italia non ha fatto eccezione a questa impostazione; si possono tuttavia rintracciare alcuni percorsi autonomi, di storici e critici d'arte, di conservatori di patrimoni o anche di studiosi-fotografi, che hanno consentito la nascita se non di una vera e propria storiografia fotografica, almeno di una sorta di "antiquaria", che a un lavoro sugli autori (talvolta oscuri) ha affiancato episodicamente una ricerca e una riflessione sulle tecniche, le pratiche e i contesti. Da molti anni Marina Miraglia è impegnata a traghettare il mondo dell'erudizione fotografica in quello della storiografia, naturalmente senza rinunciare al suo background, che è storico-artistico. La sua raccolta di saggi (dal 1977 a oggi) dimostra proprio questo: allo scrupolo filologico dei migliori studi tradizionali assolutamente imprescindibile per una disciplina relativamente giovane come quella fotografica si accompagna una positiva tensione verso la naturale, ma non scontata, interdisciplinarietà della materia fotografica, una curiosità verso territori ancora inesplorati ma importanti per la definizione di una storiografia del mezzo ottico. In particolare, la sensibilità dell'autrice si rivolge verso quelle discipline "dello sguardo" che hanno intrattenuto un continuo dialogo con la fotografia, ricordandoci che la conoscenza percettiva attivata dalle immagini da ogni immagine ha avuto conseguenze profonde sul piano antropologico, culturale e anche "ideologico". La nostra percezione "monoculare" del mondo ha le sue regole consolidate, a partire dalla scoperta della prospettiva lineare quattrocentesca, di cui la fotografia ha segnato il trionfo scientifico, immediatamente sposato dalla borghesia ottocentesca come strumento ed espressione del proprio consolidamento (non va mai dimenticata la potenza espansiva di un'immagine che, rispetto a quella manuale, prevedeva tempi e costi estremamente ridotti). Vengono così analizzati innanzitutto i severi schemi rappresentativi delle origini della fotografia, che solo il Novecento metterà in crisi, e che traggono origine dai secoli precedenti; o il nodo concettuale arte/tecnica, che si rivela utile per l'analisi del rapporto tra pittura e fotografia, in cui si individua ad esempio l'analogia tra la bottega rinascimentale e lo studio fotografico ottocentesco, con le sue diverse funzioni e la sua distribuzione dei ruoli; e poi la progressiva definizione di un'autorialità fotografica, con il passaggio da una veduta "scientifica" a una veduta "sentimentale", e quindi a un soggettivismo "ottico" (in senso letterale) specificamente novecentesco. È infatti attraverso il genere centrale della veduta che si definisce e si afferma, complici l'ottica e la chimica, una cultura visiva portatrice di valori simbolici, che prendono corpo, ad esempio, nella straordinaria e anticipatrice "poesia della montagna" delle vedute alpine di Vittorio Sella (nipote di Quintino, con cui condivideva la passione per la montagna), espressione visiva di quella generazione di piemontesi che si era proposta come obiettivo il raggiungimento della "vetta" di una vera unità nazionale. E ancora, viene affrontato quel passaggio cruciale per la conoscenza del nostro patrimonio artistico segnato, alla fine dell'Ottocento, dalla crisi della stampa di "traduzione" a favore della fotografia, in un momento in cui la critica e l'analisi filologica richiedevano una fedeltà che solo l'immagine ottica poteva garantire. E, infine, il ruolo decisivo della tecnica: nella Calabria di primo Novecento il possidente Alfonso Lombardi Satriani sceglie, già in era di istantanea fotografica, i tempi lunghi della posa per rappresentare il suo mondo privilegiato e suggerirne "ideologicamente" la continuità e la permanenza. Come si vede anche da pochi esempi, e in genere dal lavoro di decenni di studiosi come Marina Miraglia, ogni chiusura disciplinare nei confronti di un oggetto di studio poliedrico come la fotografia non può che limitarne inevitabilmente la comprensione. Gabriele D'Autilia
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