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Questo libro trae spunto dalle ripercussioni che le indagini sul decision making hanno avuto in sede di teoria politica, dando origine al recente dibattito sul paternalismo. Diversi studiosi, partendo dalla costatazione che le decisioni umane, lungi dall’essere l’esito di un calcolo logico – come prevede la cosiddetta teoria della scelta razionale – sono influenzate da specifici limiti cognitivi, hanno sostenuto l’opportunità di interventi governativi paternalistici che proteggano i cittadini da eventuali conseguenze indesiderate delle loro scelte. Ciò nella convinzione che sia possibile, attraverso un paternalismo soft, definito libertario, conciliare l’esigenza della protezione paternalistica con la salvaguardia del principio della libertà della scelta, che sta alla base della teoria democratica. Tuttavia il paternalismo libertario può essere più subdolo, e perciò più minaccioso per la libertà, del paternalismo autoritario. Ciò determina un’impasse: mentre dal punto di vista pratico molte misure paternalistiche sembrano ragionevoli e sono comunemente accettate, dal punto di vista teorico non sembra sia possibile una loro giustificazione soddisfacente. Una via d’uscita a quest’impasse c’è ma essa richiede una nuova impostazione del problema che, anziché limitarsi a introdurre nel dibattito politico i risultati delle indagini cognitive, com’è accaduto fino ad ora, metta in discussione il concetto di razionalità che sta alla base della teoria della scelta razionale tenendo conto dei dati scientifici emergenti dalle più recenti ricerche neuroscientifiche e individuando le implicazioni flosofico-politiche che ne possono derivare.
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La filosofia contemporanea è caratterizzata da una variante di naturalismo, il fiscalismo, secondo cui tutto ciò che esiste sarebbe identico o riconducibile alle particelle elementari di cui parla la fisica contemporanea e alle loro interazioni. Questo varrebbe anche per l'uomo, per l'agire umano e per le realtà generate dal suo agire, ossia le società e le comunità politiche. Se le cose stessero così, lo studio della realtà, anche di quella politica e sociale, sarebbe appannaggio esclusivo della scienza: l'agire umano e politico sarebbero, quindi, oggetti delle scienze sociali, dell'economia, della psicologia sociale e cognitiva, delle neuroscienze. Ma la nostra esperienza dell'agire umano e delle sue concrezioni politiche e sociali sono interamente imbrigliabili dalle scienze? Dubbi seri verso questa prospettiva sono aperti dall'agile libro di Carmelo Muscato, che con lucidità e chiarezza riesce a condurre il lettore non esperto attraverso i tentativi di spiegare l'agire umano proposti dalle scienze contemporanee, per portarlo ad una conclusione filosoficamente profonda: i successi, pure indubbi, delle scienze contemporanee sono parziali, poiché partono da una concezione semplificata dell'agire umano e di questo trascurano aspetti che pure si danno alla nostra esperienza e che la filosofia deve quindi includere nel suo tentativo di comprendere la realtà. La semplificazione consiste nel fatto che, nell'analizzare l'agire umano, le scienze contemporanee considerano solo l'uso strumentale della ragione, ossia l'utilizzo della ragione per individuare i mezzi più idonei a raggiungere fini prefissati. In questo, si mantengono fedeli alla tradizione che ha trionfato con Hobbes e che, attraverso l'empirismo, è giunta fino a noi. Ma l'esperienza ci attesta che noi deliberiamo anche sui fini delle nostre azioni, come avevano già rilevano le letture dell'azione umana proposte da Platone e da Aristotele.
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