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pienamente d'accordo con tullio: la lettura di questo libro mi ha completamente travolta. duro, ma anche dolcissimo, profondo, emozionante, profondamente vero. possiamo trovarci dentro noi stessi. meraviglioso. ringrazio chi lo ha segnalato e mi ha indotta a leggerlo.
In assoluto il miglior romanzo uscito in Italia nel 2009.
Recensioni
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September Eleven. Da quel giorno, da quel maledetto 11 settembre, quella dizione il nome di quella cosa ha in inglese un senso che in italiano non riesce ad avere. E non perché quell'immane tragedia sia avvenuta là piuttosto che qua. Non perché la distanza abbia un qualche peso nel suggerire, tanto meno nel determinare, quel di più di senso. È la lingua, l'inglese, che comunica diversamente, caricandosi di una tragicità che la nostra dizione non riesce a dare con equivalente intensità: September Eleven. Perché quello che l'inglese comunica è l'immagine dell'imbuto, del gorgo, dell'accelerazione inarrestabile verso la fine: dapprima il contesto, vasto, comprensivo, apparentemente piano, e poi la chiusa, che tutto strozza. Ormai, da quel giorno, è sufficiente sentir pronunciare "September" che già si sente il gorgo, si vede la fine. L'orrore è in anticipo sull'ascolto, già cancella il tempo. Graficamente, visivamente, la dizione mima l'evento terribile, compatta le due parole in una nuova realtà concettuale che non è più fatta di un mese e poi di un giorno ma è, semplicemente, Septembereleven. Nell'ultimo, splendido romanzo di Hugh Nissenson, l'11 settembre giunge, improvviso (come in effetti giunse), appena prima della metà della narrazione. L'evento, se pur quasi completamente fuori campo, spacca in due la narrazione: lacerando il quotidiano sul quale si era finora focalizzata, e riorientandola verso una balbettante interrogazione sul perché: «Sono vivo perché ieri sera ho bevuto troppo. Mi sono ubriacato perché Judy si sposa. O si doveva sposare: Guy è morto... E gli altri? Siamo in trentuno che lavoriamo alla Hotspur. Sono tutti in ufficio per le otto e trenta. Io sono sempre in ufficio per le otto e trenta. Tranne oggi, perché ieri sera ero completamente andato e ho dormito troppo. Proprio oggi. Perché? Rispondimi. Ci deve essere un motivo». Sul filo del telefono corre l'impossibilità di uno dei personaggi di dirsi un perché. Uno dei personaggi, sì, ma in realtà si tratta di ognuno. Si tratta del sopravissuto. Così come tutti noi, oggi, dopo Septembereleven, siamo dei sopravvissuti. Ci se ne renda conto, oppure no. Di Hugh Nissenson, il lettore italiano attento alla letteratura vera che viene dall'America è in grado di ricostruire gran parte dell'itinerario creativo che lo ha portato a essere riconosciuto come uno dei più interessanti scrittori statunitensi viventi. Un itinerario irregolare: perché Nissenson, non essendo una firma che "vende", non è stato "comprato" neppure in America dall'industria editoriale; non è stato chiuso, come certe galline letterarie dalle uova d'oro, nella gabbia del successo. Le mie radici (1976) fu tradotto da Garzanti; L'albero della vita (1985) da Rizzoli; L'elefante e la mia questione ebraica (1988) dalla Giuntina; Il canto della terra (2001), forse il capolavoro, dalla Palomar; e l'ultimo romanzo, del 2005, esce adesso per la Cargo. (Ci sono poi otto racconti usciti per un'editrice universitaria veronese, e altri due in due antologie, per la Bompiani e per la Palomar; e un bellissimo inedito che "L'Indice" pubblicò nel 1992.) Segnali positivi di un interesse che sopravvive al tacere delle grancasse e tuttavia esemplari, nel loro insieme, di un'editoria che riconosce la qualità e la continua tensione verso l'invenzione, ma poi ne ha paura, e si tira indietro. Perché quella di Nissenson è una narrativa che segue, per profonda convinzione, l'appello di Ezra Pound allo scrittore moderno: "Make it new!". Sono romanzi, ma anche racconti, anche scritti variamente memoriali, che di volta in volta inventano un loro linguaggio, rielaborano impostazioni di genere narrativo, buttano all'aria precedenti collusioni fra tempo e spazio della storia e tempo e spazio della narrazione: dal passato prossimo dell'inizio del Novecento nel Lower East Side di New York (Le mie radici) al passato remoto del primo Ottocento in un Ohio di Frontiera (L'albero della vita) o, ancor più remoto, del Massachusetts puritano: straordinaria invenzione anche linguistica, questa, di un work in progress;dalla preistoria di Nella valle al futuro distopico di Il canto della terra. Per cui Rallegrati di queste cose al tramonto è l'unico romanzo focalizzato sull'oggi, anzi: sui pochi giorni immediatamente precedenti e immediatamente successivi a Septembereleven. Guai però a sospettare nel nostro scrittore civetterie di acrobata della novità letteraria. Quella di Nissenson è una ricerca inesausta di ciò che lega gli individui, trasversalmente, alla propria specie anche laddove le specificità epocali sembrino allontanare e dividere. Ma, anche qui: guai a sospettare velleità di trasformismo. Se Nissenson ha in casa un archibugio che ha imparato a smontare e rimontare, a caricare e infine a usare, è perché, accanto alle componenti ideologiche più profonde del pioniere, è voluto entrare dentro anche ai movimenti minimi del suo quotidiano. Perché tutto, nella sua scrittura, deve essere riconoscibile, anche da chi un archibugio non ha mai preso in mano; anche da chi non si sia mai trovato davanti a un serpente a sonagli che sta per colpire, come sembra stia per fare quello impagliato, certo che si erge da dietro il computer fra le pile dei libri che documentano, a tutti i livelli, la realtà della frontiera che, per anni, Nissenson ha studiato. Così come, prima di iniziare Il canto della terra, lo scrittore ha passato tre anni a creare l'intero, splendido corpus grafico dell'artista suo protagonista. L'invenzione, in Hugh Nissenson, nasce sempre dalla storia: quella dell'individuo, e quindi quella della specie. "Tutte le opere della mia immaginazione diceva nell'inedito che dette all'"Indice" nascono dai miei desideri e dalle mie paure: l'unica verità che uno scrittore conosce". Perché questo scrittore che si sente "l'ultimo modernista" vive, e fa vivere, il concreto, il tangibile, l'infinitesimale, così come vive e costringe a far vivere, a credere nei grandi paradigmi che accompagnano l'essere umano fin dai tempi dei tempi: la paura, la speranza, l'attrazione, il vuoto davanti all'ignoto. E in ognuna delle sue opere ognuna diversa ("Make it new!"), ognuna di una specificità abbagliante echeggia il grido, non importa se silenzioso, del sopravvissuto. Del nostro fratello. Mario Materassi
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