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Quando non hanno assunto un atteggiamento apologetico nei confronti dei potenti di turno o posto la loro arte al servizio del mero intrattenimento, anche i musicisti, al pari di altre categorie del lavoro intellettuale, hanno vissuto un rapporto difficile con le istituzioni. Scrivendo per il teatro musicale, si sono trovati non di rado esposti alla censura (e la storia delle relazioni tra melodramma e censura, incluse vicende nostrane, è un capitolo avvincente di storia della cultura). Che ostakovič e, qualche anno più tardi, anche l'acclamato Prokof'ev, avessero conosciuto le condanne ideologiche di un regime totalitario è ben noto. Meno nota è invece la storia dei controlli, dei veti e dei condizionamenti a cui, nel paese della democrazia, fu sottoposto un musicista che ha legato il suo nome ad acclamate interpretazioni di Mahler, Brahms, Schumann, Beethoven e che negli Stati Uniti divenne presto celebre soprattutto come autore per Broadway di musical piuttosto fortunati, come On the Town, Trouble in Tahiti, Candide (più vicino al genere dell'operetta) e soprattutto West Side Story.
Gli anni della guerra fredda e del maccartismo gettarono la loro ombra anche sulla vita musicale americana. Già nel dicembre 1946 il giovane compositore e affermato direttore d'orchestra (che nel 1940, poco più che ventenne, aveva debuttato con la Boston Symphony Orchestra e, nel 1943, con la New York Philarmonic Orchestra, sostituendo Bruno Walter in un concerto trasmesso dalla Cbs), era stato denunciato all'Fbi come comunista. Nel 1950, anno dell'Internal Security Act, il presidente Truman aveva proibito la musica di Bernstein nelle biblioteche e nelle celebrazioni pubbliche, e nel 1953 il suo passaporto era stato revocato dal Dipartimento di Stato di Eisenhower. I cultori di storia del melodramma forse ignorano (come lo ignorava lo scrivente fino alla lettura di questo libro) che solo a prezzo di un'abiura scritta del comunismo, e di un'ampia ammissione dei suoi "peccati politici", Bernstein poté riottenere il passaporto per venire a dirigere alla Scala, nel dicembre 1953, la memorabile Medea con Maria Callas.
Il politologo Barry Seldes si propone con questo libro sostanzialmente tre scopi: fornirci una biografia politica, ricostruita su fonti finora non esplorate (per ricostruire nel dettaglio il ruolo di intellettuale critico del musicista era necessario non solo attingere ai materiali della Leonard Bernstein Collection depositati presso la Library of Congress, ma passare al setaccio anche il voluminoso dossier dell'Fbi su di lui); ricostruire il contesto di quella biografia, sottoponendo a esame la cultura democratica americana e analizzandone la crisi nello specchio della letteratura progressista; dare ragione del perché la sua lunga ricerca di un metodo compositivo tramite il quale cogliere drammaturgicamente l'identità della società americana (fin dalla sua tesi di laurea, dedicata al problema dell'assimilazione di elementi razziali nella musica americana, era andato alla ricerca delle espressioni artistiche di una società multiculturale) non sia stata portata a compimento e non solo perché la malattia avrebbe stroncato (nel dicembre 1990) un artista ancora nel pieno dell'attività e del fervore creativo.
La vita di Leonard Bernstein non è quella di un musicista perennemente curvo sugli spartiti. La sua biografia è costellata di proteste, appelli, interviste, firme di manifesti, che documentano il suo impegno militante contro la destra americana e a sostegno delle grandi battaglie di emancipazione sociale e liberazione sessuale, per i diritti dei neri e degli emarginati, contro il riarmo atomico, l'oppressione coloniale, la guerra del Vietnam, il programma delle "guerre stellari". Le sue apparizioni in pubblico non furono soltanto alla testa di orchestre (spesso anche in questa veste con forti valenze politiche, come quando diresse la Seconda di Mahler alla cerimonia funebre per John F. Kennedy), ma come animatore di movimenti e critico delle istituzioni e di quell'industria culturale al cui servizio pure pose la sua arte. Dalla ricostruzione del suo attivismo risulta un affresco delle trasformazioni e della crisi della cultura americana, dal New Deal agli anni del reaganismo, in un intreccio di programmi estetici e di prese di posizione politiche, a fianco dei più autorevoli esponenti della sinistra intellettuale e del modernismo americani, come il compositore Aaron Copland, caposcuola di tutti coloro che nel Novecento si posero alla ricerca di una musica americana (con forti innesti dalla musica popolare etnica), o come gli scrittori Arthur Miller, Norman Mailer, Saul Bellow, Philip Roth, nella cui opera si consuma, solo temporaneamente interrotta dall'euforia del '68, la "dissoluzione dell'immaginario progressista" americano orizzonte di dissoluzione entro il quale finisce per trovare collocazione anche il percorso compositivo di Bernstein.
Il terzo obiettivo del libro è forse quello più ambizioso, ma qui autore e recensore meglio farebbero a ridare la parola ai musicologi. Seldes si propone di fornire una risposta all'interrogativo sul perché Bernstein non abbia realizzato il proposito tenacemente perseguito fin dalla giovinezza di scrivere un'opera che potesse rappresentare l'identità multiculturale di quella first new nation che era stata e ancora continuava a essere la nazione americana. E lo fa ricostruendo un percorso tormentato, nel segno della ricerca di una combinazione tra generi musicali e letterari eterogenei e di una scrittura orchestrale che alterna ritmi jazz-swing vivacemente sincopati e pagine di ingenuo e sognante lirismo: un percorso che annovera tappe quali i musical prima ricordati o Songfest, una composizione che mette in musica poesie americane dando voce agli emarginati, ai dimenticati e ai diversi (una di queste, To What You Said, di Walt Whitman, tratta dell'impossibilità dell'amore tra due uomini), ma che appunto sembra restare senza conclusione.
Le ragioni di questa mancata realizzazione sono, probabilmente più di quanto l'autore ritenga, di natura musicale. Non era forse possibile reinventare con mezzi musicali nuovi quello che a George Gerschwin era riuscito, in riferimento al microcosmo della subcultura afroamericana, con Porgy and Bess. Ma le difficoltà erano anche di altra natura. Arrivato a un certo livello di saturazione, anche il melting pot americano non appariva più in grado di sintetizzare le sue anime. E Lennie ne albergava tre nella sua musica: il lamento profetico dell'ebraismo (che aveva trovato espressione soprattutto nelle sinfonie Jeremiah e Kaddish), il senso del tragico del grande sinfonismo tedesco, lo spensierato e rabbioso vitalismo di una società multiculturale filtrato attraverso il laboratorio intellettuale newyorkese. Ma forse all'idealismo di quella società votata alla libertà, e tuttavia prigioniera dell'imperativo del consumo, Bernstein aveva già dato rappresentazione proprio con l'eccitazione ritmica di West Side Story, laddove il coro canta "I like the shores of America! Comfort is yours in America!".
Pier Paolo Portinaro
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