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Buon libro, con qualche limite soprattutto legato ad una certa approssimazione di alcuni personaggi
Sì, anche questo romanzo italiano mi è piaciuto abbastanza, con i limiti di una certa adolescenzialità di scrittura. Si legge molto velocemente, significa anche che non va troppo in profondità delle cose.
Un romanzo divertente, ironico e a tratti commovente. Grazie all'utilizzo dei capitoli brevi, la lettura è ritmata e scorrevole. Bellissimo.
Recensioni
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Il romanzo dell'esordiente Filippo Bologna, nato nel 1978, è la rivelazione di un talento. E Sandro Veronesi ed Edoardo Nesi che lo presentano con il peso del loro prestigio hanno ragione: quest'opera prima ha tutti i requisiti per imporsi sulla scena della nostra narrativa. Intanto c'è la toscanità del linguaggio unita alla toscanità della narrazione. In tempi di globalizzazione e di best seller internazionali può essere un valore rifarsi a una tradizione regionale? Un critico come Luigi Baldacci, che ha molto riflettuto sul tema, era convinto che nel Novecento la toscanità fosse stata penalizzata e fosse considerata un minus anziché un titolo di merito. Scrittori come Tozzi, Pratolini, Cassola, Bianciardi, erano stati valutati meno dei loro meriti proprio in quanto scrittori che usavano un linguaggio legato a una tradizione forte, e quindi, in partenza, invisi a una critica che li bollava come provinciali.
Nel romanzo c'è un io che racconta, Federico, ultimo rampollo di una famiglia un tempo ricca e prestigiosa, i Cremona, proprietari di terre nel senese, intorno a Chianciano. Il nume tutelare è il nonno, anzi, il bisnonno del narratore, il Sor Terenzio, tipico eroe della toscanità terragna e tutta d'un pezzo. Uomo di successo, padrone inflessibile, "che li frustava i contadini", refrain che accompagna sempre la sua entrata in scena. Ha avuto due figli, Federico e Vanni, gemelli, ma il primo è morto a sedici anni in un banale incidente. Era il beniamino del padre, di cui ricalcava le orme per le doti di coraggio e la prorompente personalità. Ha preso le redini della famiglia Vanni, ed è da lui che discende il narratore. Ha preso il nome del fratello del nonno, come a unire in una sola due persone, i due gemelli uguali in tutto. E discendere dal Federico stroncato nel fiore degli anni peserà grandemente nella vita dell'io narrante, che del morto sembra la reincarnazione perché ne riproduce la natura indomabile: "E anche se dentro a quel destino ci stavo due volte come in un vecchio cappotto sformato, che non era della mia misura e che non vestiva bene, ci stavo. E che potevo fare? L'avevo ereditato, e non stava bene rifiutarlo. Un nome e un destino. Era tutto quello che avevo quando sono venuto al mondo".
La terra dove avviene la vicenda è ricca di acque termali. E a un certo punto irrompe sulla scena del romanzo il prepotente cavalier Ottone Gattai, imprenditore venuto dal nulla, rozzo e senza scrupoli che una dopo l'altra si accaparra tutte le terre e le aziende termali della zona, e con la tacita acquiescenza del Partito partorisce un progetto faraonico. Tanto cemento e, per salvare le apparenze, la minima percentuale di verde e di attrezzature sportive. Ma il pezzo forte del magnate delle acque è la costruzione di un enorme edificio termale, l'Acquatrade Resort. Tutti sono contenti. Tutti nella zona lavorano nell'Acquatrade, dopo che è stata fatto carta straccia dei regolamenti edilizi e dei vincoli ambientali. E se qualcuno obietta che quello è un territorio etrusco, così risponde l'orrendo Gattai: "Io gli Etruschi me li attacco al cazzo. I Russi ci porto, altro che gli Eruschi". Non solo le terme, Gattai possiede ormai tutte le acque, cioè la principale ricchezza del paese, se è vero che nel mondo il petrolio è stato sostituito dall'acqua, un bene che scarseggia tanto che dovunque i capitalisti si sono buttati sul nuovo business.
A questo punto parte la riscossa di tutti coloro che non vogliono sottomettersi allo strapotere del Gattai, e sarà Federico a capeggiarla. Il romanzo racconta la guerriglia che un pugno di prodi ingaggia contro la cementificazione selvaggia e l'asservimento di un territorio bellissimo a un cieco e brutale sfruttamento. Sono tutte da leggere le pagine finali di questo romanzo straordinario, pieno di invenzioni narrative, e sorretto da una vena affabulatoria di prim'ordine.
Come può essere interpretato il libro di Filippo Bologna? Come un'allegoria dell'Italia di oggi con il Gattai-Berlusca che ha fatto le sue fortune con la connivenza di una parte dell'opposizione? Forse il modello segreto a cui si è ispirato l'autore è La vita agra di Luciano Bianciardi. A ben guardare i due romanzi sono ambedue storie di vendette mancate, contro chi si è reso colpevole di calpestare i diritti delle persone perbene in nome della spietata legge del profitto. Nel suo romanzo, infatti, Bianciardi raccontava il progetto abortito del protagonista che, giunto a Milano, voleva far saltare con la dinamite il Torracchione della Montecatini, responsabile della strage di quarantatre minatori avvenuta a Ribolla in Maremma nel 1954.
L'arma vincente del trascinante romanzo di Bologna è la lingua. Una scrittura di grande forza e maturità espressiva, elegante e perfettamente adeguata alle ambizioni dello scrittore. Fanno spicco l'innesto di forme dialettali e l'uso di un registro comico ben amalgamato con quello lirico-drammatico. Forse il fascino del romanzo consiste anche nel fatto che rappresenta la Toscana felix di una volta, con un'agricoltura prospera e il mirabile equilibrio sociale e ambientale del suo habitat, messa di fronte alla modernizzazione selvaggia che l'ha snaturata e ha distrutto la vocazione agricola che da secoli aveva rappresentato la sua grande risorsa. Facendo toccare con mano gli orrori che può provocare il cosiddetto progresso. E infatti che razza di progresso è l'avvento di padroni come Ottone Gattai?
Leandro Piantini
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