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Adorabile e divertente come tutti i libri del grande Mainardi. Ricco di sorprese etologiche. Da leggere assolutamente.
Splendida descrizione del rapporto tra l'uomo e il cane. Fatto di tanti aspetti e di tante variabili. Fatto di legami profondi e di radici antiche, che qui Mainardi ci racconta.
Recensioni
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Orso, Felice e Bibi sono solo alcuni dei cani raccontati (e posseduti) da Danilo Mainardi in questo libro, che è davvero un bell'esempio di divulgazione. Il cane secondo me, infatti, non parla solo di cani ma di scienza, e sa farlo con la semplicità e la chiarezza che solo Mainardi riesce a trovare. Non mancano, naturalmente, indicazioni su cosa fare quando si decide di adottare un cane: alla fine del testo Luisa, figlia dell'autore (in un'appendice apposita) ricorda che i rinforzi positivi, i premi, sono molto più utili delle punizioni per educare un cane; oppure, ancora, quali siano le qualità da sviluppare per fungere da leader del nostro cane, ovvero un buon proprietario, soffermandosi soprattutto sulla necessità di stabilire regole condivise e rispettate da tutti i membri della famiglia, umani e non, tali da permettere al cane di "fare esperienza" (soprattutto nel rapporto con gli altri cani), salvaguardandolo solo dalle situazioni più traumatiche.
Questo libro invece insiste proprio nel rammentare che il cane, nonostante storicamente sia stato investito anche del ruolo di "figlio sostitutivo" nella famiglia umana, non è un bambino: è una "persona" diversa, discendente dal lupo, sociale e gerarchico e "chi non accetta (
) che il cane è una persona, è meglio che un cane in casa non lo prenda mai". Perché i cani siano "gente che, davvero, sa stare al mondo", dovremmo seguire l'esempio dei "punkabbestia" che, a discapito del look "che dà nell'occhio, e a non pochi fastidio", sembrano ottimi educatori cinofili. Il motivo è piuttosto semplice, dal momento che i punkabbestia sembrano far di tutto per non adeguarsi ai costumi sociali: "È ragionevole, pertanto, pensare che questi ragazzi i cani tendano a lasciarli piuttosto liberi" e ciò permette agli animali di fare le giuste esperienze sociali, soprattutto con i propri simili, e di essere così in grado di valutare la propria posizione rispetto ad altri individui (quello che gli etologi chiamano assessment, "valutazione per confronto").
Mainardi racconta a tal proposito, nello stile familiare che lo contraddistingue, di Felice (secondo fox terrier della sua vita) che aveva imparato a far finta di niente: quando vedeva arrivare dall'altra parte della strada "un cagnone grosso e apparentemente terribile. Libero come lui (
), semplicemente fingeva di non vederlo". Si trattava certamente di una finta, dice l'autore, dal momento che a ben vedere "la sua recita (
) aveva una piccola falla: i peli sulla schiena erano tutti dritti". Felice, con la sua capacità di fingere, lascia trasparire una mente "fina" e "sociale", fatta apposta, così appare, per vivere insieme agli altri, anche quando gli altri appartengono a una specie diversa, la nostra, imparando a leggerne i segnali interspecifici e interpretarli correttamente. Così il cane non è solo un animale sociale, ma è un animale "doppiamente sociale", che, di fronte a problemi da risolvere, fissa sempre il volto del padrone per chiedere un "aiutino", come accade per esempio nelle sessioni sperimentali di psicologia comparata che hanno soggetti canini: anche di fronte a esperimenti semplici che il cane è normalmente in grado di risolvere da solo (per esempio il detour, che richiede all'animale di immaginare un tragitto alternativo per arrivare a un bocconcino prelibato) "la soluzione autonoma è solo la seconda opzione" perché, quando c'è un essere umano nei dintorni, "si aspetta sempre un ordine, per dolce che sia". Proprio questo ne fa l'interprete per eccellenza dei nostri desideri, più bravo in questo perfino degli scimpanzé così simili a noi. Questa doppia socialità dipende dal doppio imprinting cui è sottoposto il cucciolo: quello della sua famiglia canina, entro la quale è bene che rimanga almeno per i primi due-tre mesi, per crescere come un cane socialmenteconsapevole ed educato; e quello degli esseri umani e in particolare della sua famiglia umana, perché l'animale sia in grado di sviluppare relazioni socio-affettive stabili anche con la nostra specie.
È stata, probabilmente, questa possibilità di "apprendimento doppio" ad aver permesso ai nostri antenati umani di adottare piccoli di lupo. Mainardi affronta la questione sotto due aspetti, preadattamento e imprinting. Se dunque, da una parte, i lupi erano in possesso di certi preadattamenti(secondo la nozione darwiniana) o exaptations (secondo la definizione riveduta e corretta dai paleontologi Stephen Gould ed Elisabeth Vrba) particolarmente utili o riutilizzabili per l'addomesticamento umano (socialità, abilità di predazione in gruppo e territorialità), dall'altra, i cuccioli di lupo adottati fra la terza e la settima settimana di vita − cioè prima che compaia "la paura per ciò che viene da essi ritenuto estraneo" − apprendono in maniera stabile a relazionarsi con ambo le specie: umani e cani.
Se dovessimo fare delle ipotesi, probabilmente le prime adozioni di cuccioli avvennero tra i figli degli individui "spazzini" che girovagavano intorno ai campi-base umani, e successivamente si vennero inconsapevolmente selezionando quegli individui in possesso di caratteri più infantili (occhi e testa grandi, estremità corte e grassocce, guance paffute, forme del corpo arrotondate) e poi, a partire da queste selezioni inconsapevoli, si sarebbero diversificate le miriadi di razze che noi oggi conosciamo e amiamo. A questa varietà contribuisce il fatto che "il lupo, specie che vive in varie regioni del mondo, è sicuramente stato addomesticato molte volte prendendo origine da sottospecie o razze naturali differenti e differentemente adattate" e che "il lupo, essendo un animale sociale, adatto per agire in gruppo e collaborare, è naturalmente provvisto di una grande variabilità tra gli individui". I cani provengono così da una specie curiosa, intelligente e sociale, per entrare in rapporto stretto e mutualmente dipendente con un'altra, quella umana, in possesso delle medesime caratteristiche. Un cane lasciato in solitudine non può essere altro che "un cane infelice", ed è anche per questo che l'abbandono è un comportamento così terribile e inconcepibile per il discendente del lupo, che interpreta l'abbandono come estromissione dal gruppo, sempre conseguenza di una grave pecca, di aver fatto qualcosa di sbagliato, vissuto dall'animale con profondo senso di colpa. "L'amore canino afferma Mainardi è, sempre e comunque, per la vita. Fosse per lui, un cane non divorzierebbe mai"; un cane, per esempio, non fugge mai e al massimo si perde (detto con un po' di polemica dell'autore nei confronti di quei proprietari che portano sempre i cani al guinzaglio, privandoli così della possibilità di fare esperienze).
Che cosa diventano, allora, gli animali imprinted sull'essere umano? Per rispondere dovremmo fare un lungo elenco di cani e padroni, che va dall'Argo di Ulisse, passando per il Flush di Virginia Woolf, fino ad arrivare a Lun e Jofi, due dei chow-chow amati da Sigmund Freud, e alla dinastia di cani (per lo più chow incrociati con pastori tedeschi) posseduta da Konrad Lorenz: Wolf, Stasi, Pygi, Susi, e poi Wolf II, Pygi II e così via. La questione dell'imprinting sembra allora che un po' si capovolga: chi imprinta chi? La somiglianza tra il cane e il suo accompagnatore umano non ci stupisce più così tanto: una ricerca condotta dall'Università di San Diego dimostra che chi adotta un cane di razza sceglie il più delle volte un cane che gli assomiglia, rendendo semplice per osservatori sconosciuti accoppiare la foto del cane con quella del proprietario.
La somiglianza dovrebbe però aiutarci a fare una scelta consapevole della razza del nostro cane: tutti i cani, se allevati nel migliore dei modi, possono essere dolcissimi e affettuosi, ma il cane bisogna imparare a gestirlo e a educarlo a dovere, ed è allora necessario scegliere il cane più adatto alle esigenze del proprietario. Se scegliere il trovatello al canile fa sentire ognuno più appagato, è anche vero che le razze canine sono "un patrimonio biologico e culturale che non dobbiamo perdere". È per questo che l'ultima parte del lungo racconto del cane di Mainardi è dedicato proprio a loro, alle razze di cani, con le loro storie e le loro peculiarità: dal cane corso al tanto amato fox terrier, dal maremmano al mastino, i cani circondano gli umani e li accompagnano nelle loro imprese, mentre vengono da loro modificati, scelti, amati. Del cane Mainardi fa un amico, un partner sociale, un pezzo vivente della storia zooantropologica d'Italia. Enrico Alleva e Laura Desirée Di Paolo
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