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Anno edizione: 2018
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Le otto interviste contenute nel libro sono tratte dal ponderoso Cahier Céline n. 7. Le prime tre risalgono al periodo del durissimo esilio di Céline in Danimarca; le altre furono concesse dopo il rientro in Francia, nell'eremo di Meudon (molte altre ne esistono nei Cahiers n. 1 e n. 2). Céline si sfoga e anche vivacemente, con virulenza quasi pari a quella che ritroviamo nelle lettere al suo sostenitore americano, Milton Hindous, o all'editore Gallimard. Sono gli anni, del resto, di quella tarda narrativa (da Guignol's Band a Rigodon) in cui intercala continuamente al racconto riflessioni sempre acidissime con effetti da atrabiliare monologo interiore (determinante è la punteggiatura sospensiva ed esclamativa: per alcuni è questo il miglior Céline).
Se le interviste danesi sono forse meno polemiche è perché Céline, antieroe, sapeva, al momento giusto, rincantucciarsi di fronte al pericolo (era a un passo dall'estradizione e dal processo per collaborazionismo) e giocare di difensiva (chi non ricorda l'episodio tragicomico del Voyage au bout de la nuit in cui il dottor Bardamu, alter ego dello scrittore, riesce ad ammansire l'avversione di alcuni malintenzionati colonialisti attraverso strette di mano, discorsi patriottici e inviti al bar?).
Negli anni di Meudon, i riferimenti ai contemporanei si affilano: avendo sempre meno da perdere, Céline può di nuovo moltiplicare i nemici. È lo stesso meccanismo scattato al tempo del successo dei primi romanzi, il Voyage (1932) e Mort à credit (1936). Invece di fermarsi ai riconoscimenti piovutigli da queste due scioccanti apparizioni nel fermo panorama della clarté francese, Céline si incanaglisce nel genere del pamphlet, inizio d'ogni sua futura disgrazia: uno dopo l'altro ecco Mea Culpa (1936), Bagatelles pour un massacre (1937), L'Ecole des cadavres (1938) e Les Beaux draps (1941). Mai da allora ripubblicati (tranne la frenetica requisitoria antisovietica di Mea Culpa), rivelano tutti un climax ai limiti dell'espressionismo e una violenza verbale inusitata diretta contro troppi bersagli: ebrei, comunisti, America, pubblicità, democrazia, lingua inglese ("un francese pronunciato male"), francesi, tedeschi (i "Fritzous"), capitalismo, chiesa, industria culturale, scrittori, ecc. Si è avuto un bel difendere l'accanimento antisemita delle Bagatelles interpretandole come puro esercizio di stile o complessa metafora antiborghese: i tanti che non vollero spingersi oltre il senso letterale vi scorsero unicamente, come Léon Daudet, un "livre carnassier", pericoloso e tristemente profetico.
Più che incontrare il grande scrittore, alcuni intervistatori sembrano, per dirla con Céline, voler "stanare la belva" nei suoi non splendidi isolamenti; sono ben certi di riportarne in ogni caso qualcosa di sorprendente. E Céline non delude mai, il dono di traslare il parlato nello scritto (e viceversa), vanto delle sue teorie stilistiche, è messo felicemente a prova: le sue risposte (con iperboli, storpiamento di nomi, elencazioni, divagazioni) sembrano riprendere la dismisura dei pamphlet. Tra un'invettiva e un paradosso, i contenuti virano però verso la nuda, salvifica verità. Nei fatti, lo scrittore non ha mai fatto parte di alcuna associazione politica, né scritto su alcuna rivista collaborazionista (come fece per esempio Sartre, suo solerte accusatore). Anarchico d'indole, sarcastico verso guerre e militarismo (l'esperienza del primo conflitto lo aveva reso invalido al 75 per cento), messo al bando come autore dalla Germania hitleriana, Céline si smarca da ogni insinuazione di filonazismo e di antisemitismo rivendicando la non appartenenza a niente e a nessuno. Nella sua introduzione, Ernesto Ferrero parla di "amore deluso per gli uomini" (amore però inconfessato: l'orgogliosa parabola del Provocatore non esplicita tenerezze perdute: parte dai guasti).
"È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre" si legge difatti nelle prime pagine del Voyage, e sin nell'ultima intervista (a Francine Bloch, 1961) Céline indicherà nel circo romano lo spettacolo più appagante per quell'aborrito soggetto che è la folla ("Ciò che vorrebbe vedere sono delle uccisioni ben palpitanti, da vedere con i propri occhi"). Non c'è difatti consorzio umano nei suoi romanzi (eserciti e colonie, ospedali e condomini) di cui non snidi, con umorismo spesso deflagrante, cinismi, doppiezze, miserie, patetismi, cattiveria.
Le interviste (ben tradotte da Francesco Bruno) aggiungeranno via via un più elevatoconsesso: quello dei colleghi scrittori che non hanno speso una parola (e talvolta infierito) contro l'esule in disgrazia (è persino comprensibile: lo "stile métro" aveva imbiancato di colpo tante attardate e asciutte classicità post-voltairiane; ben sapeva Céline d'essere, dopo Proust, il gigante del secolo).
La gamma degli intervistatori è varia: a un estremo c'è il tono vagamente inquisitoriale e distante di François Nadaud; all'altro, il franco, toccante entusiasmo di François Gillois, pellegrino in Danimarca (esordio: "Quindici anni che aspettavo questo momento: esattamente dalla mia prima lettura del Viaggio"). Del colloquio con Francine Bloch, il più esteso e vivace, esiste anche una registrazione diffusa dalla Bibliothèque Nationale (la voce di Céline, tra esitante e fluviale, suona decisamente più acuta di come si potrebbe immaginarla).
Nel suo studio medico di Meudon (vocazione dichiarata: alleviare le sofferenze altrui), vestito da barbone, circondato da cani, gatti e volatili molto amati e protetti, il quasi timido individuo delle interviste era il medesimo che aveva scritto Bagatelle incendiarie contro il mondo e se stesso. Forse, appunto, per acre delusione d'amore.
Carlo Lauro
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