Un libro illuminato e illuminante, che sfata uno dei miti più resistenti della contemporaneità: che la crescita continua sia necessaria e sufficiente per il benessere degli umani. Ignorando la dimensione qualitativa della vita, le relazioni affettive, la gratuità del dono e la reciprocità della cura e dell'attenzione, la società basata sulla crescita prende a suo unico riferimento il prodotto interno lordo e non esita a devastare il territorio e la sua bellezza pur di incrementare la produzione delle merci, che vanno comprate, consumate e gettate per essere sostituite da merci nuove, in un avvicendamento convulso che produce masse crescenti di rifiuti nell'ambiente e una insoddisfazione sterile e compulsiva negli umani. Ciò comporta l'esaurimento progressivo delle risorse fossili e minerarie e un prelievo di risorse rinnovabili che supera le capacità rigenerative del pianeta. Ne segue una desertificazione crescente, un'erosione dell'humus, un aumento dei fenomeni atmosferici estremi. "Nelle economie finalizzate alla crescita l'eccesso dell'offerta sulla domanda è endemico e dipende dal fatto che le aziende produttive per sostenere la concorrenza e non essere espulse dal mercato sono condannate a innovare". E l'innovazione, alleandosi con l'obsolescenza programmata e sostenuta dalla concorrenza moltiplicata dalla globalizzazione, produce un'offerta in eccesso rispetto alla domanda. Le funeste conseguenze di questo squilibrio, invece di indurre alla moderazione, incitano all'iperproduzione, indirizzata per di più a prodotti, come le automobili o l'edilizia, che hanno ormai saturato il mercato. L'aumento della produttività comporta una contrazione dei posti di lavoro che colpisce soprattutto i giovani. Ormai la situazione è insostenibile e la rassegnazione cede il passo alla ribellione, com'è avvenuto su ampia scala in alcuni paesi arabi, ma anche nelle periferie diseredate delle nostre grandi metropoli. Pallante elenca tutta un serie di conseguenze negative dell'ideologia della crescita, tanto sul piano personale quanto su quello sociale e ambientale, poiché la potenza della tecnologia produttiva è tale da interferire ormai con gli equilibri della Terra. "Come una malattia in fase terminale, la crescita sta esaurendo le risorse vitali dell'organismo di cui si è nutrita". Ma ormai siamo agli sgoccioli, e l'era che si è aperta con la rivoluzione industriale si sta avviando al tramonto, benché i nostri illuminati politici non sembrino essersene accorti. Allora è necessaria una vera e propria rivoluzione culturale e pratica, cioè etica, basata sulla sobrietà, la responsabilità e la convivialità, che apra una nuova fase, più evoluta, della storia: dalla crisi può nascere una grande occasione di miglioramento. Ecco dunque il significato della decrescita, concetto né di destra né di sinistra, né conservatore né progressista, perché il criterio delle scelte è la loro capacità di futuro. Bisogna riconoscere che, come in biologia, il nuovo non è necessariamente meglio del vecchio e il rispetto delle tradizioni concorre a mantenere e incrementare sia il benessere (e non il tantoavere) sia la bellezza. L'intreccio messo in luce nel capitolo Decrescita e arte fra etica ed estetica è uno degli snodi concettuali più persuasivi del libro. Nella visione sistemica dell'autore l'estetica è il risultato sensibile dell'armonia del tutto e l'etica è il complesso delle azioni che consentono di mantenere e incrementare quell'armonia. La decrescita non ha nulla a che fare con la recessione: è invece un modello che consente di rivalutare le risorse e le colture locali, il saper fare, l'autoproduzione di beni, la rete delle relazioni umane. "La decrescita svela la follia insita nell'obiettivo di creare occupazione come un valore in sé, omettendo di definire per fare che cosa". Bisogna fare bene, non fare tanto. Bisogna sostituire la brutalità della materia e dell'energia con la raffinatezza dell'informazione, il concetto di merce con il concetto di bene (un bene non sempre si può comprare), il concetto di occupazione con il concetto di lavoro (non sempre traducibile in termini quantitativi) e il concetto di potere d'acquisto con quello tanto più sottile di ricchezza, che si misura con la capacità di soddisfare le esigenze materiali e spirituali proprie e della propria famiglia. Di una critica serrata al prodotto nazionale lordo, un feticcio che deve crescere sempre e comunque, alimentato non solo dalla produzione, ma anche dallo spreco, dalla distruzione e dal consumo. Il Pil è basato sulla competizione e ignora la collaborazione, è il sublimato di un'ottusità egoistica e di un appiattimento sul consumismo e sulla dimensione materialistica della vita. Per quanti correttivi siano stati introdotti nel Pil allo scopo di renderlo più idoneo a rappresentare il benessere anziché la crescita indifferenziata, questo parametro resta sempre inadeguato, poiché misura solo il valore monetario delle merci. Esso deriva dal tentativo di rendere misurabile ciò che misurabile non è: il benessere, che, come la bellezza, è fatto di qualità più che di quantità e si dissolve quando lo si voglia ingabbiare nelle rigidità del numero. Pallante non fa una predica vuota, ma fornisce molti esempi di come una conversione alla "decrescita guidata" possa rimediare a molti dei danni e delle crisi della nostra società, diminuendo l'orario del lavoro (lavorare meno per lavorare tutti), restituendo alla famiglia la sua funzione primaria di cardine delle relazioni e degli affetti, dello scambio gratuito e dell'assistenza a vecchi e bambini, rivalutando con saggezza la vita agreste, il saper fare pratico e le tradizioni senza negare il nuovo quando sia valido, in modo da aprirsi al "fare bene finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto, della bellezza che con il proprio fare bene ogni generazione ha aggiunto e può continuare ad aggiungere alla bellezza originaria del mondo". Un libro che dà speranza. Giuseppe O. Longo
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