Il libro si dichiara come seconda edizione di Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia "senza combattimento" (Bruno Mondadori, 1999) e, malgrado la revisione generale, non tradisce la dichiarazione editoriale, perché l'analisi dei diversi movimenti estetici del Novecento rimane invariata, mentre vi si approfondisce quella che anima la scena artistica degli ultimi anni del secolo trascorso, fino ai nostri giorni. Il filo conduttore unificante è costituito dalla riflessione portante che se la fotografia, nel corso dell'Ottocento, ha continuato, pur se con altri strumenti, ad alimentare l'idea formalizzante del "quadro" e della rappresentazione, con movimento opposto nel Novecento ha aperto e determinato nuovi e diversi scenari dialettici nella produzione estetica dell'intero secolo. In questo sguardo generale, tuttavia, Marra fa ruotare il proprio pensiero teorico di contemporaneista intorno al concettuale, periodo nel quale l'autore individua la piena maturazione e la massificazione dei contributi epistemologici della prima metà del Novecento, interessati a varcare la soglia artistica e tradizionale del "quadro". L'analisi degli eventi è serrata e concatenata: parte dagli aspetti performativi della fotodinamica dei Bragaglia e poi del secondo futurismo; affronta gli esempi dadaisti e newyorchesi di Duchamp e di Picabia; insiste sull'importanza del ready-made; accosta felicemente, in ambito metafisico, per il citazionismo e il tempo congelato, De Chirico e von Gloeden; prosegue con l'analisi del surrealismo (Atget, Breton, il già dadaista Man Ray, Tristan Tzara, Mark Ernst, Brassaï, Walker Evans) e dei fotografi novecenteschi considerati come tardivi epigoni del pittorialismo; raffronta l'informale e la fotografia di reportage; arriva al periodo concettuale (Body Art, performance, Narrative Art, concettuale propriamente detto e visto nella duplice accezione di "freddo" e "analitico"); si impegna in una rivisitazione degli anni ottanta (con Mappelethorpe, Newton, Sherman, i Becher e il "pensiero debole" della new wave italiana); conclude con l'avvento del digitale, ossia con la confusione e il mescolamento di vero e falso, di generi e linguaggi, tipici della nostra contemporaneità multimediale. Pur se ammirevole, la concatenazione logica del pensiero dell'autore sembra presentare alcune falle, soprattutto perché il giudizio critico non sempre è sostenuto da quello storico. Malgrado l'indubbia fascinazione del procedere del pensiero e dell'esposizione, si ha infatti l'impressione che tutto ciò che non può combaciare alla lettera con i presupposti e le strategie del concettuale sia espunto da Marra per insignificanza; è il caso del fotomontaggio, (nonostante provenga dal canone della prospettiva rinascimentale e della rappresentazione ottocentesca) o, ancora, quello di numerosi fotografi degli anni cinquanta (tacciati di arretratezza culturale perché legati all'idea rétro di quadro, mentre, pur se educati in un clima di sopravvivenza a oltranza del pittorialismo, seppero dare un contributo notevole alla rottura del modernismo). Altrettanto ambigua è la posizione dell'autore quando, mentre si impegna a individuare un'identità della fotografia, afferma poi che è impossibile pensare a una sua storia autonoma. Come ci insegna l'esegesi contemporanea, la fotografia, per la sua congenita polisemia e le sue molteplici "anime", trasporta con sé e incanala anche percorsi non necessariamente inscrivibili nel sistema dell'arte, tanto da scrivere, o aiutare a scrivere, molte altre "storie" che, per i sottesi scambi relazionali, interessano tout court la storia, la sociologia, l'antropologia, la letteratura e anche, senza pregiudizi di merito precostituiti e denigratori, la storia della fotografia e quella dell'arte al di fuori del concettuale. Il capitolo sull'informale marca una cesura fra prima e seconda parte del libro. È qui che l'autore, affiancando la poetica "mondana" dell'informale a quella che anima di sé la fotografia di reportage, propone una tesi decisamente seducente, che regge molto bene alla verifica dei casi analizzati del più precoce Weegee, di Robert Frank e di William Klein, meno a quella dell'opera di Henri Cartier-Bresson, le cui immagini, "chiuse" e formalmente concluse, sono state viste dalla critica e dalla storiografia fotografica come decisamente antitetiche rispetto al modello informale (o postmoderno) definito da Eco e più tardi da Lemagny. Giustamente la teorizzazione finale del passaggio da un'arte fondata sul mito della creatività manuale a un'arte governata dal sistema mediale e dalle sue contaminazioni viene attribuita a Warhol, che apre definitivamente a quel ribaltamento finale di forze tra pittura e fotografia di cui anche oggi siamo partecipi; nel Novecento, infatti, è l'arte fino a quel momento intesa in senso tradizionale che, costretta a rinunziare al proprio monopolio, adotta una serie di identità e di strategie visuali che ricalcano le categorie messe in gioco dalla fotografia, senza che venga però attivata una totale omologazione dei due media, ma dando invece luogo a un complesso territorio culturale, basato su "precise e articolate affinità elettive". Marina Miraglia
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