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Toghe rotte. La giustizia raccontata da chi la fa
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Toghe rotte. La giustizia raccontata da chi la fa

Descrizione


"Il cittadino che abbia voglia di capire perché molte persone condannate per reati finanziari le ritroviamo coinvolte in scandali successivi; perché perfino i reati più comuni (rapine, estorsioni, sequestri di persona, omicidi) spesso sono commessi da gente che è già stata condannata per altri reati; perché il processo termina, nel 95% dei casi, con una sentenza di non doversi procedere per prescrizione. Per capire perché accade tutto questo, è necessario sapere che cosa succede nelle aule dei tribunali e come si lavora nelle Procure. Ecco un libro che finalmente lo racconta. Se si supera lo choc di queste testimonianze offerte da vari magistrati e avvocati, sarà poi più facile valutare le esternazioni in materia di giustizia che provengono dal politico di turno, di volta in volta imputato, legislatore, opinion maker, e spesso contemporaneamente tutte queste cose." Accompagna le testimonianze un testo illustrativo ad uso dei cittadini, per capire come funziona la giustizia (la pena, i gradi di giudizio, le indagini, il processo). La prefazione al libro è di Marco Travaglio. Bruno Tinti è procuratore aggiunto presso la Procura di Torino. "Uno di quelli che prende ordini dal procuratore capo e non ne può dare ai sostituti." Si occupa di reati finanziari: falsi in bilancio, aggiotaggio, frode fiscale, bancarotta.
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Dettagli

4
2007
20 settembre 2007
181 p., Brossura
9788861900301

Valutazioni e recensioni

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ANDREA
Recensioni: 5/5

Bellissimo libro sulla giustizia/ingiustizia italiana

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Lorenzo Panizzari
Recensioni: 2/5

Divertente e rilassante (un po' troppo caro, 12E) ma senza spunti di riflessione; libro di anti-qualcosa (politica? istituzioni?) dove la magistratura è la povera vessata da leggi pazzesche ma nel contempo anche rifugio di malaffare, luogo di rendite di posizione e di intrallazzi per interessi privati/locali a scapito del doveroso compito al servizio della collettività. Nel finale la critica si concentra sulla politica che fa le leggi e si responsabilizza la magistratura, ma poco, specificando che è una reazione alla cattiva politica. Si compone di una serie di racconti di fatti reali (o presunti tali, poterebbero benissimo essere storie inventate da un bravo giurista) che tratteggiano situazioni tra il surreale ed il comico, se non fosse drammatico ricordarsi che (realtà o fantasia che sia) si basano su leggi realmente applicate. Il libro è di facile lettura ed ironico, ma ha due grandi difetti: il primo è l'assenza di proposte migliorative (si critica la situazione, perché non proporre?); il secondo è l'anonimato degli scrittori ed i nomi di fantasia usati per i racconti, in pratica si racconta il malaffare ma senza vere denuncie e senza scoprirsi (cane non mangia cane, ed anche io tengo famiglia).

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Stefano Facci
Recensioni: 5/5

Un libro illuminante sullo stato della giustizia in Italia. Con esempi molto pratici anche per i profani che spiegano dettagliatamente per quali motivi (e nell'interesse di chi) la macchina della giustizia è perennemente ostacolata.

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Recensioni

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Voce della critica

Il sottotitolo potrebbe indurre fraintendimenti. I "racconti" riguardano solo la giustizia penale. E nella stragrande maggioranza dei casi non secondo il punto di vista di chi la "fa", bensì di chi la promuove, il pubblico ministero, che è poi la professione del curatore. Un libro di agevole lettura per i non addetti ai lavori, ai quali essenzialmente è rivolto. Grazie alla scelta di rifuggire dai tecnicismi, a favore di un linguaggio molto semplice, addirittura venato di giovanilismo e con sparse concessioni al turpiloquio. Si paga il costo di qualche imprecisione e grossolanità nella descrizione di singoli aspetti del processo penale, che però si lasciano perdonare grazie all'esattezza del quadro di insieme e anche al divertimento che a tratti si ricava dalla lettura.
Un desolante quadro di devastazione, che emerge anche dai risvolti amaramente comici. I racconti di Bruno Tinti e dei suoi anonimi (chissà perché) collaboratori si occupano soprattutto dei delitti commessi dai cosiddetti colletti bianchi. Delitti per i quali l'inefficienza della giustizia penale si segnala non già per l'incertezza della pena di cui tanto si parla, ma per la certezza pressoché assoluta della sua non applicazione.
Uno stato delle cose che giustifica non solo la civile indignazione manifestata dagli autori, ma anche il senso di frustrazione già evocato dal titolo del libro. Chi indaga su abusi edilizi, truffe allo stato o alla Comunità europea, corruzione, concussione, falsi in bilancio, evasione fiscale – e si tratta spesso di indagini complicate e impegnative su delitti che destano (dovrebbero destare) un grave allarme sociale per le conseguenze rovinose sulla vita della collettività – sa già in partenza che il suo sarà un lavoro fatto per niente: il colpevole non sconterà (quasi) mai la punizione. Di qui, osservo di passaggio, la comprensibile tentazione dei pubblici ministeri di chiedere e spesso ottenere la custodia cautelare in carcere, anche quando l'esistenza dei relativi e molto restrittivi requisiti di legge appare dubbiosa, all'evidente scopo – ovviamente non dichiarato – di far scontare almeno un breve periodo di privazione della libertà al presunto colpevole prima di una condanna, minacciata dal codice, ma che non verrà mai.
Le cause denunciate di questo inutile girare a vuoto sono numerose. Su molte di esse non si può che concordare. Su altre bisognerà esprimere preoccupate obiezioni.
È certamente vero che recenti interventi del legislatore dimostrano la volontà di sottrarre il ceto politico e imprenditoriale (moltissimi politici sono imprenditori o parenti o affini di imprenditori) alla responsabilità penale per alcune categorie di reati. Nella scorsa legislatura una tra le più famigerate cosiddette leggi ad personam ha in buona sostanza depenalizzato il falso in bilancio: rimane il titolo di reato, ma circondato di tali ostacoli da renderne la repressione praticamente impossibile. Si tratta di un caso eminente di ipocrisia legislativa. Fenomeno purtroppo frequente, sul quale varrebbe la pena che si esercitassero le capacità concettuali e ricostruttive di qualche eminente giurista.
Ed è anche vero che i vizi denunciati nell'esercizio dell'autogoverno della magistratura, fondamentalmente dovuti alla degenerazione corporativa delle correnti, influiscono negativamente sull'efficienza dell'amministrazione della giustizia nel suo complesso e rappresentano la causa non ultima dell'interminabile durata dei processi. Giusto contestare la perenne positività dei giudizi sull'impegno e la professionalità dei magistrati, così da rendere burocraticamente automatica la carriera "economica" senza guardare al merito. Ancora più giusto lamentare che la scelta dei dirigenti troppo spesso viene praticata guardando agli equilibri di corrente, piuttosto che alle esigenze della funzione. Si legga al riguardo l'esilarante descrizione dell'incapacità e delle tendenze al quieto vivere di un presidente di tribunale nell'unico "racconto" dedicato all'attività giudicante.
Né si può dubitare del fatto che l'assurda disciplina della prescrizione, che non prevede l'effetto interruttivo a seguito dell'esercizio dell'azione penale (come avviene per l'esercizio dell'azione civile), contribuisce enormemente all'inflazione dei procedimenti e alla conseguente semiparalisi del meccanismo giurisdizionale. Una grande percentuale di processi è infatti tenuta in piedi da imputati sicuramente colpevoli, ma abbastanza ricchi da poter sostenere i costi della difesa nei diversi gradi di giudizio, al solo scopo di ottenere la declaratoria di proscioglimento per prescrizione, con inevitabile effetto di circolo vizioso sulle durate processuali. L'ovvia conclusione tratta dal curatore è che la giustizia penale ha una forte connotazione di classe, riducendosi, a parte le causes célebres per i grandi delitti di sangue che attirano l'ossessiva attenzione dei media, a somministrare la galera a legioni di poveracci (molti extracomunitari) che delinquono per cercare un sostentamento. Che gli insufficienti strumenti di welfare e di promozione del lavoro non assicurano, bisognerebbe aggiungere. Fenomeno del resto non solo italiano (si veda il bel saggio di Elisabetta Grande sull'ordinamento nordamericano recensito in questa rivista, cfr. "L'Indice", 2007, n. 10).
Le perplessità nascono quando tra le cause del disastro che affligge i meccanismi repressivi della criminalità il curatore elenca puntigliosamente i diversi aspetti "indulgenziali" del sistema, concepiti come se contribuissero ai fallimenti subiti dall'esercizio dell'azione penale. Qui probabilmente gioca la funzione di pubblico ministero esercitata dal curatore e da gran parte degli anonimi autori. Come se, per ragioni di mestiere, un accusatore pubblico dovesse tendere a concepire esclusivamente la funzione punitiva del carcere, così da sentirsi sconfitto quando la pena viene fortemente ridotta o addirittura sostituita da misure alternative a seguito dell'applicazione di diversi istituti, come gli sconti di pena per buona condotta, il regime di semilibertà, l'affidamento ai servizi sociali. Viene totalmente ignorata e anzi probabilmente sentita come estranea o addirittura nemica la funzione rieducativa della pena, al punto da definire "famigerata" la legge Gozzini. Vale a dire quell'intervento legislativo con la prima firma di un grande intellettuale prestato alla politica che in tempi migliori si era proposto di attuare il principio sancito dall'articolo 24 della nostra Costituzione. Difficile sottrarsi all'impressione che alla base di questi giudizi stia l'ideologia securitaria che si esprime nell'abusata parola d'ordine della "tolleranza zero", segno dell'involuzione, per non dire dell'imbarbarimento dell'oggi. Anche se, naturalmente, bisogna essere d'accordo quando la critica si appunta, invece, sull'applicazione lassista e burocratica dei provvedimenti sostitutivi del carcere, previsti dalla legge sulla base di presupposti da accertare con il necessario rigore. Sergio Chiarloni

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