Indice
Dall'introduzione di Guido Harari
SI FANNO LIBRI PER RIMANERE SOLI DI FRONTE ALLA NECESSITÀ DI SAPERE CIÒ CHE SIAMO
Si fanno libri per viaggiare dentro altre vite. Si fanno libri per accendere gli spiriti. Si fanno libri che si
vorrebbe come amuleti. Per tutte queste ragioni avete ora in mano Bestemmia.
Anche noi, come un tempo Pasolini, ci rivolgiamo – chissà – “a un lettore nuovo”, senza altro
proposito che quello di offrirgli uno sguardo lungo sulla magmatica fabrica pasoliniana, privilegiando
un contatto diretto con la scintilla creativa, con il lampo del pensiero e della volontà. Questo è una
specie di libro zen: un distillato impossibile di migliaia e migliaia di folgorazioni, visioni, abbozzi, scritture,
riscritture, innesti, rifacimenti, progetti di opere future, appunti, compilazioni di indici, poesie,
prose, drammi, sceneggiature, articoli, saggi, disegni, quadri, storyboard, taccuini, diari, corrispondenze,
documenti legali, ritagli di giornali, volantini, manifesti, libri, dischi, oggetti personali e fotografie,
tutti in continua osmosi malgrado la loro stupefacente eterogeneità. Un caleidoscopio di documenti,
in parte inediti o presentati per la prima volta nella loro forma originale, che si è scelto di proporre
in un ininterrotto piano sequenza, scanditi soltanto da una cronologia essenziale, senza intenti filologici
né ambizioni di completezza, che in questa chiave sarebbero stati improponibili.
La “perennità” di Pasolini sta nella “sistematica inattualità” della sua rabbia intellettuale e
nell’esigenza di una negazione totale nei confronti della società e della cultura italiane, che lo hanno
sempre considerato un corpo estraneo da emarginare o espellere. Pasolini ha pre-visto tutto e lo ha
fatto da poeta prim’ancora che da intellettuale: “non sono un pensatore e non ho mai aspirato ad esserlo.
A volte entro il contesto di un’ideologia mi viene qualche intuizione, e così mi è capitato di precedere
gli ideologi di professione. (...) Quel che conta è la profondità del sentimento, la passione che
metto nelle cose; non sono tanto né la novità dei contenuti, né la novità della forma”.
come ha scritto Piero Bevilacqua, “Pasolini vede con sconvolgente capacità anticipatrice, da
poeta, con una sensibilità esasperata, il lato nascosto, ancora invisibile, ma distruttore di un grande
processo, che è anche di emancipazione. è come se l’amore per la bellezza, la nostalgia del passato, la
sensibilità poetica creassero nella sua mente una chimica speciale dell’intelligenza, capace di sfondare
la coltre contraffatta della realtà e guardare oltre”.
Forte del suo intransigente e appassionato pessimismo, Pasolini ha levato sempre più alto il suo
grido – “siamo tutti in pericolo” – contro l’irreligione del suo tempo e i fantasmi che già si agitavano sul
futuro: dal consumismo dissipativo al genocidio culturale, al male incurabile dello sviluppo, alla liquefazione
di una modernità che ha ritirato le sue promesse, alla pietrificazione della politica, alla crescente
irresponsabilità sociale, alla reversibilità storica delle conquiste civili e culturali, all’irreparabile
perdita della sacralità e della bellezza, della memoria, della purezza.
Pasolini è uscito di scena quarant’anni fa, precursore anche di temi come la decrescita felice di
Serge Latouche e la modernità liquida di Zygmunt Bauman, un passo prima che la collettività sfarinasse
nella connettività, il proletariato nel precariato e la globalizzazione cominciasse a fare i conti con un
inarrestabile métissage culturale. ma già allora il suo bilancio finale era atroce: “La realtà lancia su di
noi uno sguardo di vittoria intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre”. Già
negli anni cinquanta il suo cruccio di decolonizzare l’immaginario, per usare le parole dello storico
americanista Serge Gruzinski, individuava nella distruzione dei miti l’unica via per innescare una conversione
di mentalità che consentisse di ricostruire la società umana.
Può spaventare la funebre cupezza di certe parole di Pasolini, eppure essa altro non è che lo
specchio della nostra cupezza, della nostra incapacità di insinuare uno stato di sogno e di meraviglia
nella barbarie del nostro stato di veglia; di accogliere e coltivare una “purezza”, ormai perduta, di spirito
e di sguardo; quello stesso da lui posato via via sulla natura e sul mondo contadino del Friuli, sul
sottoproletariato romano, sui miti dell’antichità classica, sul terzo mondo e altro ancora. Per questo ha
pagato di persona, con un processo di rimozione che è la peggior offesa non solo alla memoria della
sua incontenibile vitalità, ma anche e soprattutto alla nostra intelligenza. su tanta desolazione risuona
sempre quell’urlo straziante – “siamo tutti in pericolo” – a ricordarci che “non si lotta solo nelle piazze:
la lotta più dura è quella che si svolge nelle coscienze”. Impossibile trovare miglior bussola oggi: “contro
tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il
che significa a essere continuamente irriconoscibili (…) e continuare imperterriti, ostinati, eternamente
contrari a pretendere, a volere, a identificarvi con il diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”.
Guido Harari