Tra le narrazioni autobiografiche sulla Grande guerra, La mano mozza (1946) di Blaise Cendrars merita un posto di primo piano per l'originalità della testimonianza e la ricchezza del linguaggio che la esprime. La guerra si manifesta a Cendrars innanzitutto come pagaïe, confusione, baraonda; il regno dell'insensatezza e del caos, la prova definitiva, per il disincantato poeta e avventuriero, che Dio è assente dal deserto di senso in cui si affannano gli uomini. In questo caos il narratore s'immerge con disillusa vitalità, vive quest'esperienza disumana "bevendola fino alla feccia", fino a uscirne trasformato, a diventare un altro uomo (coerentemente con il riferimento simbolico dello pseudonimo che si è scelto, che richiama le ceneri della fenice). Ma, in tale immersione, non c'è nessun gusto estetizzante, come ben chiarito nel dialogo, posto verso la fine del racconto e dotato di un'indubbia valenza di indicazione ermeneutica, fra il protagonista della narrazione e il bizzarro poliziotto-poeta che lo raggiunge nelle trincee. Se lo svizzero giramondo che sceglie di arruolarsi come straniero nell'esercito francese per "odio verso i crucchi" non nasconde comunque un certo compiacimento nel mettersi alla prova in ogni situazione, anche la più estrema, lo scrittore che, trent'anni dopo la fine dell'esperienza bellica (conclusa a seguito della ferita che gli è costata l'amputazione del braccio destro), affronta quella memoria incandescente sceglie un approccio mimetico nei confronti del caos di fango e di sangue che la guerra è stata ai suoi occhi. Lo fa con una narrazione che non segue la successione cronologica degli eventi, ricca di divagazioni, flashback, aneddoti, spesso picareschi, che s'incastrano uno nell'altro a matrioska, e, soprattutto, con una scrittura plurilinguistica, inventiva e piena di gergalismi. Netto è il contrasto con il maggiore testo narrativo della nostra letteratura sulla prima guerra mondiale: Un anno sull'altipiano, in cui Lussu sceglie di far fronte a una materia altrettanto insensata e ai limiti dell'umano con prosa limpida e lucida ironia. Cendrars rifiuta il classicismo tradizionale della prosa francese e inventa una lingua adatta al suo scopo. In questo, così come nel cinismo ostentato e nell'importanza dell'aspetto visivo, con le notti di guerra descritte come fantasmagorici spettacoli di luce, può avvicinarsi a Céline, da cui lo distinguono, però, la scelta di buttarsi a capofitto nella battaglia e il rifiuto della lâcheté. All'interno di tale narrazione aspra, linguisticamente modellata sull'argot dei faubourgs parigini, trovano spazio (specialmente nella parte più memorabile del racconto, quella delle avventure da guerriglieri della piccola squadriglia di apolidi guidata dal protagonista nelle paludi di Frise: "la piccola guerra nella grande guerra") improvvise descrizioni paesaggistiche che, fornendo lo sfondo di una natura ostile alla lotta di uomini già impegnati allo spasimo e affiancando respiro epico e spietata anti-retorica, possono ricordare al lettore italiano, pur con le dovute differenze, alcune pagine di Fenoglio. Né mancano gli episodi umoristici (buona parte del libro sembra tendere, con tutta la forza della disperazione, verso il riso), normalmente in forma dialogica, come lo spassoso interrogatorio di un soldato tedesco davanti a un bonario generale vieille France, a fare da contrappunto alle pagine che hanno solo il sapore del sangue, del fango e dell'alcool abbondantemente ingurgitato dai soldati per affrontare tanto orrore. L'esperienza di guerra di Cendrars è resa peculiare dal suo aver militato in una compagnia di stranieri, apolidi, irregolari, arruolatisi nelle file francesi per ideale o per bisogno, per eccentricità o per desiderio di integrazione. Se, nello stesso anno in cui esce La mano mozza, Calvino inventa volutamente, nel Sentiero dei nidi di ragno, la più sgangherata delle bande partigiane, Cendrars rievoca una galleria eterogenea di personaggi provenienti da ogni parte del mondo, di parigini di origine straniera, discendenti dei rivoluzionari accorsi a Parigi nel 1848 o nel 1870, che, disprezzati dagli ufficiali di carriera (alla cui insipienza e alterigia Cendrars riserva critiche feroci), si battono e muoiono nella più totale insensatezza, pedine della storia e carne da macello nei massacri del fronte occidentale. E in questa serie di ritratti, asciutti e insieme profondamente umani e segretamente affettuosi, risiede il fascino maggiore del libro. Il narratore, a volte, può risultare irritante, nel suo porsi come personaggio quasi "celliniano", in grado di uscire incolume da ogni peripezia e dotato delle competenze e dei talenti più eclettici, ma il suo sguardo non è in realtà rivolto su di sé, sul proprio vissuto, ma sugli altri, su quell'accozzaglia di diseredati con cui ha condiviso un anno ai confini dell'inferno e che in gran parte non sono sopravvissuti. Il suo è un omaggio a questi dimenticati, sradicati e senza patria come lui, e proprio l'assenza di ogni abbellimento retorico rende i suoi ritratti tanto vividi, veri, umani. E, da scrittore, li omaggia soprattutto resuscitando il loro linguaggio, quell'argot dei faubourgs parigini, ora scomparso, tipico degli artigiani, del popolo minuto, dei bohémiens e dei papponi dei boulevards, una lingua così intrisa di scetticismo e di disincanto, e insieme così viva, concreta ed umana, da risultare l'unico argine possibile nei confronti dell'inumano e dell'indicibile. Una lingua che pone enormi difficoltà a qualsiasi traduttore. Sfortunatamente, la traduzione di questa nuova edizione italiana del capolavoro di Cendrars è spesso, nonostante alcune felici soluzioni, sciatta ed imprecisa, oltre che timida nel tentativo di rendere l'inventiva linguistica dell'originale; in ogni caso, non all'altezza di quella storica messa a punto da Giorgio Caproni nel 1967. Andrea Bianchi
Leggi di più
Leggi di meno