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Anno edizione: 2012
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Qualcuno di noi di certo se lo sarà domandato sentendo le statistiche relative ai costi della politica e all’enorme quantità di fondi che da Montecitorio confluiscono nelle casse dei partiti italiani: “Ma il finanziamento pubblico ai partiti non era stato abolito molti anni fa con un referendum?”
La risposta è sì. Nel 1993, all’indomani dell’inchiesta Mani pulite e sull’onda della diffusa indignazione della società civile, venne indetto un referendum abrogativo della vecchia Legge Piccoli che aboliva totalmente il contributo statale ai partiti. La logica dei promotori del referendum era semplice: i partiti politici italiani, considerati dalla Costituzione alla stregua di una qualsiasi associazione riconosciuta, non hanno nessun obbligo di rendicontazione e non sono sottoposti a nessun controllo. Per di più ricevono “donazioni volontarie” da più parti, fondi che negli anni si sono trasformati in laute “mance” da parte delle lobby e dei grandi gruppi industriali italiani. Nella situazione di illegalità diffusa in cui si trovava il nostro Paese nel 1993, l’abolizione del finanziamento pubblico sembrò una soluzione necessaria, approvata da oltre il 90 per cento degli elettori.
Ciò che avvenne negli anni successivi viene spiegato egregiamente in questo volume, una vera e propria inchiesta, ampiamente documentata, condotta dal giornalista Paolo Bracalini. Attraverso un lungo excursus storico che spiega le ragioni e il prevalere delle diverse esigenze politiche degli ultimi vent’anni, il recupero di documenti, interviste inedite, dati e statistiche, Bracalini ci conduce al cuore del problema, quantificando, monetizzando, indicando i singoli testi legislativi e i personaggi nei confronti dei quali il cittadino deve rivolgere la sua indignazione. E non ci si può aspettare una reazione diversa alla notizia che, per ogni legislatura, lo Stato consegna ai partiti 500 milioni di euro (a cui vanno aggiunti 200 milioni per le elezioni regionali e 230 per quelle europee) in proporzione ai voti ricevuti, a tutti i partiti che abbiano ottenuto almeno l’1 per cento dei voti, quindi indipendentemente dal superamento della soglia di sbarramento per ottenere dei seggi, che è il 4%. L’escamotage per aggirare il divieto sancito dal referendum è banalissimo: si tratta di un “rimborso per le spese elettorali”, anche se la spesa sostenuta per le elezioni da parte dei partiti è meno di un quinto della posta in palio (calcolata come risultato della somma di 5 euro a testa per ogni cittadino avente diritto al voto).
Cose che succedono, quando i controllati sono anche i controllori… Cose che non dovrebbero succedere in un Paese che è sull’orlo della più grave crisi finanziaria degli ultimi cinquant’anni. Purtroppo il sistema è oliato e dal 1994 ad oggi ha portato alla crescita esponenziale dei fondi destinati ai partiti, fino ad arrivare a una cifra totale di 2,7 miliardi di euro in 17 anni. Naturalmente senza considerare gli stipendi dei parlamentari, i rimborsi spese, le indennità, i portaborse e tutto quello che viene solitamente annoverato con il termine “costi della politica”: in questo caso si tratta semplicemente dei soldi che servono ai partiti per perpetrare se stessi.
Dice giustamente l’autore: “La democrazia ha sempre un costo, anche economico, e non c’è Paese europeo che non finanzi le forze politiche. Però anche in questo l’Italia si distingue, nel senso che siamo primi nella classifica dei costi della politica. Tutti gli altri paesi finanziano i partiti con un forfait annuo molto esiguo e poi rimborsano le spese elettorali effettivamente sostenute. Noi no, rimborsiamo tutti con un mare di soldi, anche chi non ha speso un centesimo. Col risultato che il costo dei partiti per il cittadino italiano è il più alto d’Europa.”
Ma come vengono effettivamente spesi tutti questi quattrini da tutti i partiti italiani? Dai grandi partiti, come il PD e il PDL, ai cosiddetti partiti “antisistema”, come la Lega e Di Pietro, per finire ai mini partiti che non esistono più se non nella contabilità dello Stato (come Forza Italia, L’Ulivo, la Dc, sigle mantenute in vita forse sperando di raggiungere per sbaglio la soglia dell’1%), la prassi è costante: i soldi vengono investiti nelle più svariate attività finanziarie, dalle proprietà immobiliari ai brevetti, mantenendo però costantemente in rosso i proprio bilanci.
Le ragioni di tale pratica sono spiegate in questa inchiesta, una lettura illuminante e perfettamente bipartisan, che rivela i retroscena della politica italiana e che certamente riaprirà i termini di un lungo dibattito.
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