A lettura ultimata di questo romanzo massimalista, il primo aggettivo che verrebbe da usare è "potente", tanta è la forza penetrativa, percussiva della scrittura, le profonde riflessioni filosofiche sui tempi che corrono, oggettivate nella narrazione della commedia umana, e lo spettro di cose che questa narrazione fluviale riesce a illuminare, catturare con l'intento di un effetto molto forte di realtà, di contemporaneità. Cosa assai rara nel panorama della narrativa italiana più recente. Tanto che dopo l'esordio avvenuto con i racconti Dove credi di andare (Mondadori, 2007), alcuni dei quali di rara forza espressiva e immaginazione letteraria, Francesco Pecoraro, architetto romano che esordì a sessant'anni, molto attivo nel blog tashtego.splinder, torna a sorprenderci con questo monumentale romanzo ambizioso e riuscito, che fa piazza pulita di molti romanzetti in circolazione, molti dei quali pluripremiati. Siamo nel maggio del 2015 quando il protagonista di La vita in tempo di pace, l'anziano ingegnere Ivo Brandani, il Brando, sta tornando da un viaggio in Egitto, dove lavora per una multinazionale a un piano segretissimo di ricostruzione virtuale della barriera corallina del Mar Rosso, il Progetto Largo, e, mentre attende all'aeroporto di Sharm il volo che lo riporterà nella Città di Dio, ripercorre la sua vita e oltre mezzo secolo di storia italiana in un romanzo di formazione, storica, culturale, di formazione alla vita, con i suoi riti e miti, che lascia stupefatto il lettore per profondità di sguardo e capacità di rielaborazione emotiva, percettiva di quel passato che è già diventato storia. La ricca scrittura usa più registri, avanza per associazioni, aggrega nelle sue ruote dentate, non dà tregua, a volte la terza persona cede alla prima per dare maggior forza, persuasività, altre volte si distende, diventa più descrittiva, più calda, in altre è traumatica, impietosa, ustionata. Ma, a parte qualche lungaggine, non si concede mai cadute. I tre puntini céliniani servono a far esplodere, dilatare, una scrittura prepotente che rompe gli argini, tracima, e a volte è sul punto di esplodere per una condizione interna di troppo pieno. Il viaggio è a ritroso, dall'oggi fino a un lontanissimo dopoguerra in bianco e nero, coglie le tappe fondamentali della nostra storia e di quella di un uomo nato nella piccola borghesia romana, negli ambienti degli squallidi palazzinari del boom economico protagonisti di molte commedie all'italiana, in quel ventre molle qualunquista, tipicamente nostro, fatto di individui inetti ma sempre pronti al compromesso e alla truffa. Poi verrà il '68, quella che Brandani chiama la sua "storia fossile", vissuta nel movimento studentesco, la militanza comunista, quell'antagonismo interiorizzato che gli farà dire anche dopo "io non sono come voi, non mi avrete mai"; e ancora gli anni ottanta, dove il reduce smarrito subisce la fascinazione del Capitale (che nel libro trova uno sbocco narrativo in un'indimenticabile gita in barca con il perverso capitano d'industria Nico De Klerk), nella "macchina infernale del profitto, dove o competi o sei spacciato in partenza". Nell'azienda dove ha lavorato, la Megatecton, descrive alla perfezione il mondo dei "soldatini del Capitale", "tutti con capello corto oppure interamente raso, abbronzati, l'occhiale nero di marca pronto nel taschino, vestiti tutti allo stesso modo", ma diventerà a un certo punto anche un integrato, cosa di cui lo avvertirà il compagno di studi Franco Sala, la sua voce della coscienza, che spesso torna nel libro ad ammonirlo: "Ti consegnerai nelle mani del Capitale, sarai un ingranaggio del profitto. Servirà che tu sia abbastanza bravo, ma non bravissimo. Servirà che tu sia sempre pronto a dire Si può fare". E, alla fine, l'Oggi assoluto, dove "quello che conta è l'immaginario di massa: chi ha oggi i mezzi per costruirlo vince". Dove la politica insegue il consenso: "La loro realtà è questa, perché il consenso è l'acqua in cui nuotano. Gliela togli e loro affogano". Dentro questo viaggio nel tempo l'eros prepotente di un maschio pieno di vitalismo, giovane nelle spiagge italiane degli anni sessanta, dentro l'amarcord di un flirt fugace e indimenticabile con una ragazza francese, universitario innamorato, sposato con Clara, la donna della sua vita, marito in crisi, infine amante svogliato. Sempre lui, Ivo Brandani, il personaggio indimenticabile di questo libro, umanissimo e cinico, fragile e disorientato, molte volte allucinato e pieno di ossessioni, il grande non eroe dei nostri tempi, "perseguitato dal senso della catastrofe" e proprio per questo un uomo che somiglia a molti di noi che vivono il mondo occidentale dell'eterno presente dell'irrealtà mediatica. Pesa novanta chili, suda continuamente, forse la sudorazione è spia delle emozioni che prova, del suo essere preso da continui spasmi emotivi, quelli che in genere muovono il ricordo. Ravvisa ovunque crepe, rovine, possibili catastrofi: "La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà, in ogni edificio (che può crollare), in un aereo in volo (che può precipitare), in un'automobile in corsa (che può sbandare), in una presa di corrente (che può andare in corto), in una pentola sui fornelli (rischio di incendio)", come recita il fenomenale incipit. È lui il centro, il cuore pulsante del libro, è suo il racconto sempre gravido, ridondante, la storia, il modo di raccontare l'ingovernabile e vorticoso caos del mondo. Sue sono le continue elucubrazioni, dissertazioni, con l'inclemente e disincantato desiderio di "appartenere a niente, essere niente". È lui l'uomo che ama "l'Estate come utopia perché quelle che per gli altri sono solo vacanze, per me diventano segmenti di un'esistenza alternativa, l'unica vera e giusta, l'unica che valga la pena di vivere"; ancora lui l'uomo annoiato, "calvo, sovrappeso, fisico massiccio ma sfatto, occhiali, lamentoso, depresso, ansioso, in rapido declino come amante". Ma, nonostante tutto questo, Ivo Brandani ci attrae, ci riguarda, pagina dopo pagina, vogliamo sapere tutto di lui, pendiamo letteralmente dalle sue labbra. È sempre lui a dirci, direi a dimostrarci, con strani ma inconfutabili ragionamenti visionari, che pesca dai ricordi dell'università, e dalle prolusioni del professor Molteni al corso di filosofia teoretica, ma che ricordano un po' quelli dei personaggi mattoidi di Paolo Volponi il cui impianto romanzesco da "memoriale" è la spia più sensibile di una paternità letteraria, che "il futuro è deteriorato, sembra che non ci attende niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così, il futuro aveva qualche problema, ma complessivamente era radioso, lucente, interstellare, intergalattico". Un grande romanzo italiano che come pochi riesce a raccontare il mondo precario che stiamo vivendo, nell'attesa di un futuro incerto, apocalittico, dove il tempo di pace evocato nel titolo e durato settant'anni, quanti quelli del protagonista e dell'autore di questo libro, non c'è più. Perché, come ci avverte Brandani, con l'angoscia del futuro addosso, prima di ingerire l'ennesimo Tavor per cercare di sedarla: "Mai c'è stata prima una pace così lunga, mai un'accelerazione così forte delle cose, mai gli oggetti si sono così rapidamente trasformati in altri oggetti, mai un'instabilità così accentuata". Angelo Ferracuti
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