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Uno strano libro che mescola due filoni della narrativa americana: il racconto familiare, incentrato sul rapporto dei tre fratelli (a mo' di Franzen) e il racconto sociale con lo scontro/incontro di più culture (in stile Spike Lee). Prevale nettamente il primo filone e questo è il più grande limite del libro, mentre invece avrei preferito maggiormente leggere le conseguenze sociali del crimine dell'odio che sta alla base dell'incipit.
Letto e apprezzato tantissimo
A mio parere, il meno bello di tutti tra i libri della Strout, che io adoro.
Recensioni
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La puoi osservare sulla linea della metropolitana o su qualche autobus extraurbano, se c’è un raggio di sole sulla panchina di un parco. È composta, assorta e sta leggendo sottovoce pronunciando a malapena e lentamente le parole di un bel libro, color senape. Se vi capita di assistere a una scena del genere, siamo sicuri, la ragazza sta leggendo Elizabeth Strout.
Le sue lettrici affezionate, che hanno apprezzato i suoi successi internazionali, come Amy e Isabelle e Olive Kitteridge (Vincitore del premio Pulitzer nel 2009 e di svariati altri premi nel mondo) lo sanno benissimo: un romanzo di Elizabeth Strout bisogna affrontarlo con calma, senza lanciarsi a capofitto, senza pretendere di capire tutto e subito. Ci vuole il tempo necessario per accordarsi con le armonie della narrazione. Armonie fluenti, avvolgenti e cadenzate. Bisogna rallentare il ritmo dei pensieri, immergersi nelle sfumature, respirarne le atmosfere, vederne i colori, aguzzare i sensi. Proprio come succede leggendo i classici della letteratura.
Un romanzo scritto con l’eleganza di un classico ma incentrato su tematiche attuali, forse il segreto del successo di questa scrittrice statunitense sta proprio nel gioco dei contrasti. La vicenda si svolge tra New York e Shirley Falls, un piccolo paese del Maine, dove sono nati e cresciuti i fratelli Burgess. Due di loro, Jim e Bob, hanno lasciato il Maine per Brooklyn, mentre a Shirley Falls è rimasta solo Susan, gemella di Bob, che dopo essere stata lasciata dal marito si è ritrovata da sola con un figlio adolescente, Zachary. Da quel momento la sua vita quotidiana è stata segnata da una depressione incipiente che la rende flemmatica e triste. Susan è una donna piuttosto scontrosa con tutti, specialmente con quegli strani individui, i somali, che da qualche tempo hanno invaso il suo tranquillo villaggio.
Jim, il maggiore dei Burgess, è un avvocato di grido a New York, balzato agli onori della cronaca dopo aver risolto uno di quei casi mediatici che possono fare la fortuna di un avvocato difensore e cambiare il destino dell’imputato. Robusto, imponente, Jim è un uomo di buon senso, dalla vita agiata e dalle abitudini rassicuranti. È sempre stato la colonna portante della famiglia, al contrario di Bob.
“Cosa c’è che non va in te?”. È questa la frase che tutti gli ripetono più spesso. Bob non ha niente che non va, è solo un uomo sensibile con qualche trauma irrisolto: quando aveva quattro anni ha provocato l’incidente in cui perse la vita suo padre, a quarant’anni è stato lasciato da sua moglie perché non poteva avere figli e adesso, a cinquanta, è incapace di prendersi cura di se stesso.
Una sera una telefonata dal Maine rompe il silenzio in casa di Jim Burgess. È Susan, quasi isterica, perché suo figlio Zac, ormai diciannovenne, sta per essere arrestato. Il ragazzo, vai a capire per quale motivo, ha lanciato all’interno della moschea di Shirley Falls, una testa di maiale surgelata, durante il Ramadan, sconvolgendo la comunità somala e finendo su tutti i giornali. Pensare che sia Bob, il fratello sciocco e incapace, a risolvere la situazione, è una follia. Deve essere Jim a intervenire, pregando sua moglie Helen di rinunciare a una costosa vacanza, raccogliendo tutte le forze, scegliendo di ritornare là dove erano stati seppelliti tutti i segreti di famiglia.
È un quadro “hopperiano” quello che si rivela ai nostri occhi leggendo questo romanzo. È misurato, elegante, ma anche terribilmente intimo, nella misura in cui può essere terribilmente intimo spiare all’interno delle finestre altrui. Elizabeth Strout riesce, ancora una volta, a mostrarci una parte di società tradizionale americana, concentrandosi su una realtà in cui il dialogo multiculturale non è stato ancora sperimentato e in cui le paure ataviche di ogni uomo prendono il sopravvento sulle nostre pacifiche esistenze.
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