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Divagazioni stanziali
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2009
1 gennaio 2009
134 p., Rilegato
9788864640013

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Gabriella De Santis
Recensioni: 5/5

molto bello - un pugno nell'occhio per tutti quelli che vorrebbero una letteratura basata sui colpi di scena e sull'eccezionale. qui una voce umile, distesa e pacifica accompagna in un mondo quasi mitico, eppure realissimo, quello del sud dell'italia troppo spesso dimenticato o trattato come fenomeno di cronaca. Grande presentazione di Gianni Celati, che si può leggere su Nazione indiana.

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Voce della critica

Da otto anni, esiste sul web una rivista di letteratura "militante" chiamata, con esplicito omaggio a Leopardi, "Zibaldoni e altre meraviglie" (www.zibaldoni.it), la quale, oltre a poter vantare insieme alla "Settimana enigmistica" un consistente numero di imitazioni, ha ospitato sin dall'inizio contributi molto interessanti ed eterogenei, non solo per mano di intellettuali e scrittori di chiara fama, ma anche da parte di "outsider" che meritano senz'altro un'attenzione più meditata, rispetto a quella effimera e superficiale che spesso si riserva al web.
Nume tutelare di questa intrapresa è Enrico De Vivo, il cui esordio letterario risale a una decina di anni fa, quei Racconti impensati di ambientazione scolastica usciti per Feltrinelli con prefazione di Gianni Celati; poi, nel 2004, lo stesso De Vivo ha curato un'antologia che radunava i "pezzi" migliori della rivista online. Oggi De Vivo si mette alla prova nelle vesti per lui inedite di direttore di una nuova collana "Questo è quel mondo" (Leopardi avant tout les choses, vero e proprio deus non absconditus alla base di questo progetto editoriale) per la veronese casa editrice QuiEdit. Il primo volume di questa collana ha un titolo programmatico quanto felicemente ossimorico: Divagazioni stanziali. Un "delirio d'immobilità", più o meno come accadeva nell'Arsenio montaliano, ma soprattutto l'ostentazione di un'esplicita indifferenza ed estraneità mostrata verso le sirene bolse del "romanzesco" a tutti i costi. Piuttosto, la rivendicazione di un percorso narrativo originale e curioso, che si guarda bene dal non lasciarsi contaminare dallo sterile scimmiottamento di tendenze letterarie in auge. Infatti, l'intuizione da cui De Vivo parte, tutt'altro che balzana, è che si possa fare esperienza del mondo rimanendo sempre nello stesso posto, aderendo con "concentrazione percettiva e collegamento affettivo" a luoghi conosciuti e perlustrati mille volte: "attento alle minime apparenze del mondo esterno, perfino il modo in cui erano disposte le file di alberi lungo una strada mi suscitava pensieri". Più o meno come accade alle timide, acrobatiche esplorazioni tentate da quegli omini arrampicati su scale traballanti, tanto sagacemente stilizzati nella bella copertina di Mili Romano e tanto figurativamente "empatici" alle divagazioni originali ed errabonde di questo flâneur di provincia, sensibile e delicato, tollerante e affabile. De Vivo è un cultore della perdita del tempo, dell'"operosità inoperosa" e dell'otium assurti quali ineludibili imperativi categorici.
Giustamente chiosa Celati nella prefazione di questo libro "scritto per le delizie del divagare, del riscrivere storie e tentare strade senza obbligo, in uno stato di atarassia napoletana, o dei paraggi". Divagazioni divise in tre ante ("in osservazione del mondo", "in ascolto del mondo", "in pensiero sul mondo") e tutte comunque innervate da quel manens moveor, motto ripreso dal Giordano Bruno degli Eroici furori, che qui non funge da semplice epigrafe, ma si tramuta in una sorta di insegna araldica che compendia efficacemente lo spirito di queste narrazioni di De Vivo. "Quel mondo", quindi, di cui De Vivo parla, con una lingua garbata e pulita, è quello che lui conosce meglio: la provincia salernitana, esperita e circostanziata attraverso una serie di luoghi (la scuola, il bar, il supermercato) che quotidianamente l'autore attraversa, sempre riservando a essi uno sguardo mai banale, né sterile, ma traendone invece sempre l'occasione per nuovi spunti e ipotesi, in una giostra di riflessioni, storie e fantasie che catturano il lettore. I "nonluoghi", di cui l'autore parla, per esempio il Parco imperiale di Gragnano, non vanno interpretati ricorrendo alla formula, quasi sempre citata a sproposito, di Augé, ma nel senso più immanente e letterale di non-esistenti: "periferico, sganciato, ma soprattutto senza un orientamento urbanistico, (…) come in un labirinto senza uscita".
Eppure anche questi pezzi di paesaggio hanno un loro fascino sottile, sottotraccia, segreto e misterioso, ma reale, tangibile. Come per Proust, secondo il quale non esistevano donne brutte, ma piuttosto solo uomini privi di fantasia, così è anche per De Vivo, convinto che "bisogna imparare ad apprezzare la bellezza dei luoghi brutti". Del resto, in queste scorciatoie e raccontini di poche pagine, in queste riflessioni schive e pensose, l'autore evita alla grande ciò che rende insopportabilmente vacua tanta scrittura dei giorni nostri, cioè "le ipocrisie del narratore oggettivo e le lamentele del grande moralista". Al loro posto, una forma diversa e altra di attenzione e di comprensione verso l'esistente, verso ciò che è a noi più vicino e prossimo. Sarebbe una buona cosa avercelo come Cicerone per viaggi da fermo, il nostro De Vivo: parafrasando il VII del Purgatorio, potremo dirgli, come fa Virgilio a Sordello: "Menane dunque là 've dici / ch'aver si può diletto dimorando".
Linnio Accorroni

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