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Questo libro ha vinto il primo premio nazionale del Gigante delle Langhe per la narrativa 12-14, decretato dai ragazzi, con la seguente motivazione, che condivido in pieno: Per essere un romanzo di formazione, che alterna lo stile asciutto e incalzante della cronaca di una partita di pallone al più ampio respiro del procedere di un classico. Una pagina di storia poco conosciuta che apre allo sguardo del lettore tutto l'orrore della guerra. Poche censure a rappresentare la barbarie, la bestialità dell'uomo, il sopruso di ogni elementare diritto. In cronaca diretta o in meditata narrazione.
Molti ingredienti, forse troppi, per una storia che avvince a corrente alternata: la II Guerra mondiale, l'occupazione nazista in Ucraina, la vera storia dei giocatori della Dynamo Kiev e di una squadra che deve sfidare i nazisti, una ragazzina che a dispetto degli stereotipi vuole diventare calciatrice seguendo le orme di suo padre. A volte i tanti piani si intrecciano efficacemente altre volte la scrittura si fa un po' farraginosa e il ritmo perde la sua efficacia. Comunque un libro che fa viaggiare nel tempo e nella storia, con incursioni nel mondo del calcio.
Chi ha inventato i giochi da maschio e i giochi da femmina?, si chiede Sasha, che è una ragazzina e ama il calcio. Ed è anche la protagonista del nuovo, tanto poetico quanto toccante, romanzo di Nicoletta Bortolotti dal titolo "In piedi nella neve" (Einaudi Ragazzi), che riprende una delle partite più tristemente famose della storia, quella giocata il 9 agosto 1942 tra le SS e i prigionieri (nonché ex calciatori) ucraini. Sasha che, con un linguaggio lieve ma infuso di dolorosa sapienza, racconta in prima persona, è la figlia del portiere della squadra e nell'occasione utilizzata come raccattapalle. Vedere da vicino, anzi partecipare alla partita è per lei (come per noi lettori, anche adulti) semplicemente indescrivibile: lo stomaco, da tempo vuoto di cibo, le si riempie di sogni realizzati. Perché i prigionieri derelitti trionfarono, sì, ma ciò fu pure la loro condanna a morte. Però in quel caso vincere, e quindi morire, era l'unico modo per continuare a vivere. Cosa sulla quale il calcio moderno potrebbe riflettere.
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