La storia di Antonio Gramsci prigioniero del fascismo si arricchisce di un nuovo importante contributo, che si segnala per l'analisi approfondita e rigorosa di fonti inedite e di una letteratura spesso dimenticata. L'autore è uno studioso non certo alle prime armi, il marchigiano Ruggero Giacomini, che ha avuto, tra gli altri meriti, quello di adottare un approccio originale. La sua ricerca, infatti, comincia e finisce con Antonio Macis, il giudice militare che condusse e portò a termine l'istruttoria del Tribunale di Milano contro Gramsci e gli altri coimputati rimettendo poi gli atti al Tribunale speciale, e fu "il regista solerte e l'abile interprete di una prolungata azione disinformativa", tanto da conquistarsi un certo margine di fiducia e, facendo leva tra l'altro sulla comune identità sarda, da riuscire a insinuare in Gramsci il dubbio che fossero i suoi stessi compagni a volerlo tenere in galera. In realtà Macis altro non era che uno zelante e abile magistrato al servizio dello stato fascista, che con determinazione sfruttò la qualifica faticosamente ottenuta di invalido di guerra per fare più rapidamente carriera. Diventato prima pubblico ministero del Tribunale militare, promosso prima maggiore e poi tenente colonnello dopo aver prestato servizio in Etiopia, si distinse in qualità di procuratore nella azione repressiva portata avanti dall'esercito nella Jugoslavia occupata, al punto da essere incluso poi dalle Nazioni unite nell'elenco dei criminali di guerra che avrebbero dovuto essere estradati e processati. Al ritorno in Italia, fiutato in tempo il cambiamento del vento, si imboscò nel Monferrato, riuscendo a procurarsi inesistenti benemerenze partigiane e a passare indenne attraverso le maglie dell'epurazione: concluse così la sua tranquilla carriera e onorata carriera all'apice del cursus honorum e morì a Torino nel 1973. A dare una spinta importante a questa carriera contribuì in modo decisivo l'abile gestione dell'imputato Gramsci. Giacomini dimostra con prove documentarie e argomentazioni inconfutabili che il rinvio a giudizio di Gramsci per "fatti diretti a sorgere in armi gli abitanti del Regno per instaurare violentemente la Repubblica italiana dei soviet" era già deciso ben prima che gli arrivasse la "famigerata" lettera di Ruggero Grieco del marzo 1928, che confermava magari con eccessiva leggerezza l'ovvia verità che egli fosse il capo del partito comunista: una lettera, sostiene l'autore, che a dispetto di quanto pensò lo stesso Gramsci non ebbe influenza alcuna nemmeno sul fallimento della trattativa avviata con l'interessamento del Vaticano per uno scambio di prigionieri fra Italia e Urss, la quale fu resa impossibile solo dall'assoluta opposizione di Mussolini. Lasciato temporaneamente da parte il giudice Macis, l'autore ripercorre scrupolosamente tutta la vita carceraria di Gramsci. E smonta, con una penna che sa essere tagliente, non poche "verità" che dimostra essere piuttosto luoghi comuni storiografici, a cominciare da quello che vuole una diplomazia sovietica tiepida o addirittura riluttante nell'impegno a favore della liberazione del prigioniero. Viene ricostruito accuratamente lo spaventoso accanimento contro Gramsci delle autorità penitenziarie, evidentemente istruite dall'alto a rendergli la vita impossibile attraverso un'azione continua e preordinata di disturbo delle sue ore di sonno. L'intento era quello di piegarlo e costringerlo a chiedere la grazia. Ma questa soluzione fu sempre scartata con sdegno persino furibondo da Gramsci, la cui resistenza Giacomini non a torto definisce "eroica". Neanche il regime particolarmente vessatorio di sorveglianza a cui venne sottoposto dopo la libertà condizionata, quando le sue condizioni di salute stavano ormai precipitando, lo indusse a desistere. In questo quadro nel complesso rigorosamente documentato e attendibile ci sono, nello sforzo di piegare l'asse dell'interpretazione in senso opposto a quello divenuto corrente, alcuni eccessi non convincenti. Così, per esempio, quando l'autore ridimensiona molto, anzi troppo, l'entità del contrasto di Gramsci con Togliatti nell'ottobre del 1926, quando la lettera che il primo, a nome dell'ufficio politico del PCd'I, scrisse al Comitato centrale del partito sovietico, fu ritenuta inopportuna e non consegnata ai destinatari dal secondo. Così anche quando pare minimizzare oltre misura il contrasto con il partito dopo la svolta del 1930. Ma dove la ricostruzione di Giacomini dà adito alle maggiori perplessità è a proposito della morte di Gramsci, in un capitolo intitolato in modo eloquente L'assassinio. L'autore qui dà ampio credito ai sospetti da Tania Schucht che Gramsci sia stato avvelenato nella clinica Quisisana dove trascorse gli ultimi mesi della sua vita: uno sconfinamento in quella pratica della storia puramente congetturale che pure fustiga senza risparmio quando è messa in atto da altri. Non è necessario ricorrere a ricostruzioni troppo fantasiose perché il lettore abbia chiara la verità che emerge inconfutabile da questo libro notevole. Gramsci fu coscientemente e accanitamente perseguitato dal fascismo fino all'ultimo giorno della sua vita e fu Mussolini in persona, non Stalin e non Togliatti, che chiuse ogni spiraglio a una sua liberazione che non passasse dall'abiura dei suoi ideali politici. Un'abiura che non ebbe la soddisfazione di ottenere. Ruggero Giacomini
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