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Il titolo richiama il ben più famoso Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo antico, anche se questo romanzo è ben lungi dall’esserlo. C’è almeno una nota stridente. Non si è mai letto da alcuna parte che Camilleri facesse parlare i suoi personaggi in dialetto milanese. E neppure si è mai udita una commedia di Eduardo e Peppino de Filippo recitata in dialetto milanese. E non ho mai visto un film di Alberto Sordi in cui pure lui si prendesse la briga di parlare o recitare in dialetto meneghino. Qui, in un noir completamente ambientato nella Milano d’antan del 1975, viene introdotto un assistente del commissario Malaspina, certo Venditti (penso che l’omonimia con il cantautore sia puramente accidentale), romanaccio borioso e saccente, e piuttosto burino, che sproloquia in romanesco, con battute al limite dell’assurdo (e.g. p. 21, Jens Bold, che potrebbe essere tradotto nel Calvo con i jeans ma sta per James Bond). E tutta la pidocchiosa sequela di verbi smozzicati: “anna’, vede’, importuna’, dovemo, fa’”, e via così. Per non dire del povero commissario perennemente troncato in commissa’. Inoltre Venditti sembra la controfigura di Gargantua e Pantagruel, perennemente affamato e sempre pronto a scroccare da mangiare e bere, anche nelle circostanze di maggior impegno investigativo. Che bisogno c’era d’introdurre il dialetto di Trilussa o di Belli, quando noi abbiamo ottimi poeti in puro dialetto milanese, a iniziare da Carlo Porta? Non è questione di campanilismo; così si rovina l’atmosfera milanese, ben resa in altri romanzi degli autori. A meno che sia un’operazione prettamente commerciale, tesa a incrementare le vendite fino alle porte di Roma. La trama comunque è ben concertata e fa pensare a un film western (il Cavaliere della Valle Solitaria di Stevens o forse una delle belle pellicole di Sergio Leone).
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