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Ragazzo. Il paese morale - Piero Jahier - copertina
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2002
1 gennaio 2002
232 p., ill. , Brossura
9788870164077

Voce della critica

In autore risulta infatti del tutto sconosciuto negli scaffali delle novità". Come purtroppo non sempre accade, ecco pochi mesi dopo una provvida smentita: la riedizione (nel testo della prima edizione 1919) del terzo titolo "vociano" dell'autore, Ragazzo , una lampeggiante storia di formazione alla quale il curatore del volume molto opportunamente accosta una scelta di articoli pubblicati sulla "Voce" e accomunati dall'argomento. Che è, coerentemente con la chiave ermeneutica adottata da Di Grado per rileggere l'intero percorso creativo di Jahier, il tormentato rapporto con le proprie radici, con la "dura, inesorabile educazione puritana, nel seno della piccola minoranza Valdese". Articoli che vanno inquadrati, secondo il curatore, anche nell'ambito della più ampia "Calvino- Renaissance italiana dei primi decenni del Novecento", all'interno della quale era proprio "il Calvino più algido e duro della vulgata ad affascinare" Jahier.

"Nulla era leggero per noi" si legge nell'articolo del 1912 Il paese morale (titolo che il curatore ha scelto per la silloge), cioè per gli adolescenti valdesi, studenti stupefatti che dalla scuola bevono "il sapere disinteressato" senza aspettarsi lo "stacco di diplomi alimentari". L'educazione di questo ragazzo "sempre diviso, tra il tetro puritanismo di mio padre e la serena toscanità materna" è segnata, sostiene Di Grado, in pari modo dalla religione dei padri e dall'ombra del padre pastore, anzi - ancor più - dal suicidio di costui, roso dai rimorsi per adulterio. Ne risulta segnata pure la prospettiva etica dello scrittore, al tratteggio della quale reca un ulteriore contributo la postfazione di Bouchard, attenta a chiarire le peculiarità dell'interventismo e dell'antioperaismo di Jahier (mentre a fugare gli equivoci sul populismo di Jahier provvede Di Grado nel saggio introduttivo): se la sua contestazione della religione dei padri non risponde a precise ragioni teologiche è perché essa si nutre innanzitutto di questo atroce strappo familiare, dando al giovane scrittore uno statuto di sradicato che lo apparenta alla nostalgia mitteleuropea primonovecentesca di "uno Heimat smarrito", ma anche perché tale contestazione risponde a una più radicale tensione interiore, "un impulso della fede delusa", un'aspirazione, in definitiva, a una fede incorrotta che lo porta a ferocemente stigmatizzare la secolarizzazione più avida di ricchezze dei suoi correligionari. E in questo atteggiamento, per Di Grado, il protestante Jahier finisce per incontrare idealmente (sempre sulle pagine della "Voce") il cattolico Giovanni Boine, come pure Scipio Slataper sul versante del pauperismo e dell'antiletterarietà.

Boine, Slataper, Jahier. Nomi di scrittori che ormai ogni bravo studente liceale conosce, perché li avrà correttamente incasellati nelle griglie delle "correnti" che ormai punteggiano ogni sintesi di storia letteraria del Novecento. Ma ne avrà letto almeno qualche pagina? C'è da dubitarne. Non solo perché a ogni comodo incasellamento pare ormai corrispondere una proporzionale noncuranza di conoscenza testuale; né solo per la reperibilità difficile di cui si diceva, parzialmente risarcita dall'odierna pubblicazione (ma sarebbe opera meritoria anche la ristampa delle poesie, del più noto Con me e con gli alpini e soprattutto del primo testo in prosa di Jahier, Resultanze in merito alla Vita e al Carattere di Gino Bianchi , snodo importante della letteratura sui travet ); ma soprattutto per l'ardua eppure affascinante scontrosità della loro prosa, e in particolare di quella di Jahier, già sottovalutata da Russo e tacciata di idillismo da Debenedetti (che però lo paragonava a Tozzi!) né meno fraintesa da quei critici che hanno sottolineato il prevalere dell'istanza etica antiletteraria su quella strettamente lirica.

A una rilettura odierna, invece, soprattutto in Ragazzo l'opzione per il lessico farcito di fiorentinismi e di scelte espressionisticamente connotate, ancorché strettamente legata alla temperie vociana, appare uno strumento suonato con grande perizia ma soprattutto con spontaneità, e proprio in direzione anti-idillica. Lo stesso può dirsi della struttura frammentata della narrazione, controbilanciata da una magnifica orchestrazione della pagina, intarsiata dal ricorrere frequentissimo di frasi che sono veri e propri versi ben dissimulati. Talché si rivela sempre più produttiva l'indicazione di Mengaldo circa l'influsso che non solo i veri e propri versi ma anche la prosa lirica di Jahier possono avere esercitato sul verso lungo di Pavese.

A fondare le premesse per l'equivoca patente di idillismo può aver contribuito la parte finale di Ragazzo , che riguarda il ritorno al paese natio. Ma - a guardar bene - nel testo si legge che le montagne "stavano sedute terribilmente, nere contro il cielo orientale, ognuna solitaria con a fianco il suo laghetto di colostro, e facevano gridare e piangere". Anche il rapporto pieno con la natura è rappresentato come frutto di una fervida fantasia infantile: i luoghi che per gli adulti sono di duro lavoro fisico, per il ragazzo in vacanza diventano praterie indiane da esplorare, territori dell'immaginazione, non sempre lieta però, se "i pensieri del ragazzo sono: come possano seppellire - il calzolaio oggi - nella terra così oleosa dove si stirano beatamente i gonfi lombrichi rosa". Su queste inquietudini si stende pur sempre l'ombra dell'educazione religiosa: "e la forza di cui parla il pastore è di non fare la cosa piacevole gradita, ma la più dura e difficile e l'umiliazione. Dunque confessare che la trota portata a casa in trionfo è del vivaio, piluccato io l'uva spina, io rotto la branda" (e si veda come l'emersione coatta dei sensi di colpa viaggi parallelamente all'aspra contrazione della sintassi, quasi un singultare di confessioni strozzate). E, infine, lo zio ritrovato - anni dopo - al paese, disperato e vecchissimo, non offre alcun risarcimento alla perdita della figura paterna.

E allora le pagine più scintillanti del libro stanno all'inizio, soprattutto in quel primo capitolo dedicato alla morte del padre, strutturato su una "interrogazione reiterata, senza risposta, che si rivolge al Dio di Giobbe e dei Salmi , dei quali mimeticamente riproduce cadenze e sospensioni" (Di Grado). È in queste pagine dolorose che risuonano gli stessi accenti di verità che troviamo nel Peccato di Boine e nel Mio Carso di Slataper, "libri programmaticamente irrisolti, rabbiosamente spezzati" segnati dalla "colluttazione col Logos" (Di Grado) che conduce i tre giovani vociani, in modo così originale ed eretico, a individuare un'improbabile eppure affascinante via frammentista al realismo.

Nella cruda semplicità di queste domande martellanti - "No. Non voglio essere tuo, Signore. Papà, voglio essere il tuo bambino. È vero che sono bugiardo. Papà. è vero che ho il cuore cattivo - ma aspetta - solo un poco... Oh! se tu volessi riprovare! Perché non hai aspettato almeno un poco a morire?" - si ritrovano le radici di domande risuonate chissà quante volte nella coscienza in formazione del ragazzo Jahier, nelle sue malferme certezze di adulto. Altro che idillio...

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La recensione di IBS

Uno scrittore protestante nella Firenze laica e innovatrice della "Voce", Piero Jahier. E un romanzo autobiografico degli anni '20, Ragazzo, uno dei primi e più arditi esempi - sempre in ambiente vociano - del rinnovamento novecentesco delle forme narrative. Il romanzo della sorda lotta dell'autore con l'Angelo: con la fede impietosa dei Padri e con la morte suicida del padre, il pastore Pier Enrico Jahier, vittima nel 1897 dei propri rimorsi puritani a seguito di un adulterio. La rievocazione, sincopata dai singhiozzi e folgorata dalle illuminazioni, di quel crimine originario e della successiva, ardua formazione del "ragazzo" nonché delle valli valdesi che ne accolgono il provvisorio e implacato ritorno di "apostata" dà vita a una narrazione febbrile e convulsa, oscillante fra gli abbandoni del salmo biblico e i dilemmi d'una laica indagine. In appendice a Ragazzo, Di Grado, curatore del volume e autore del saggio introduttivo, ripropone - sotto il titolo comune, felicemente riassuntivo, d'uno di essi, Il paese morale - una serie di articoli usciti sulla "Voce" in cui Jahier torna alle valli e alla fede riformata che vi ebbe e ha rifugio, all'impervio magistero di Calvino e alle peculiarità del protestantesimo italiano.

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Conosci l'autore

Piero Jahier

1884, Genova

(Genova 1884 - Firenze 1966) scrittore italiano. Figlio di un pastore protestante, iniziò studi di teologia ma li interruppe per impiegarsi alle ferrovie. Fu collaboratore della «Voce», di «Lacerba» e di «Riviera ligure». Partecipò come ufficiale degli alpini alla prima guerra mondiale e diresse il giornale delle trincee «L’Astico»; dopo la guerra fondò «Il Nuovo contadino», un periodico destinato ai reduci delle povere famiglie di agricoltori. Emarginato dal regime fascista, si dedicò a un’intensa attività di traduttore, dal francese e dall’inglese. Con G. Boine, S. Slataper, C. Michelstaedter e G. Stuparich, J. fa parte di quel gruppo di «moralisti vociani» che nel...

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