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Nei primi decenni del XVIII secolo il crimine sembra vivere in Inghilterra una sua fosca età dell'oro e attirare irresistibilmente l'attenzione degli scrittori. Defoe racconta le gesta del ladro Jack Sheppard, eroe di clamorose evasioni dal carcere, e di "Jonathan Wild il grande", geniale organizzatore di una sorta di estesissimo racket ante litteram della ricettazione e del ricatto; delinquenti meno illustri raggiungono la celebrità attraverso opuscoli anonimi che il pubblico divora con inesauribile avidità. Le esecuzioni capitali a Tyburn (l'attuale Hyde Park Corner) sono uno spettacolo frequentatissimo: la folla, tra cui si aggirano in gran numero prostitute e tagliaborse, insulta o applaude i delinquenti ubriachi, che salgono al patibolo bestemmiando, mentre i chirurghi, desiderosi di accaparrarsi le loro spoglie da sezionare, si azzuffano ai piedi della forca. È questo quadro sinistro, immortalato da Hogarth, a fornire lo spunto alle otto lettere che il medico olandese Mandeville pubblica nel 1725 sul "British Journal" e di cui questo volumetto costituisce la prima traduzione italiana. Proprio da medico, e da medico che aveva messo a punto una cura della melanconia fondata unicamente sulla parola, Mandeville affronta il problema della criminalità, giungendo alla conclusione che è necessario associare nell'immaginario collettivo i reati a un'immancabile e severissima punizione, che deve presentarsi come il loro esito fatale. L'introduzione del curatore, oltre a contestualizzare storicamente il testo, ne sottolinea l'importanza teorica. Benché Mandeville, fautore della pena di morte e di un inasprimento delle condizioni dei detenuti, sembri collocarsi su posizioni opposte a quelle che adotterà, qualche decennio più tardi, Beccaria, in realtà le analisi dei due filosofi si collocano in un orizzonte comune: l'orizzonte laico dell'utilità sociale e della prevenzione, che svincola la punizione del crimine da ogni metafisica dell'espiazione.
Mariolina Bertini
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