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Pagine stravaganti di un filologo. Vol. 2: Terze pagine stravaganti. Stravaganze quarte e supreme (Nel testo originale)
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Pagine stravaganti di un filologo. Vol. 2: Terze pagine stravaganti. Stravaganze quarte e supreme (Nel testo originale) - Giorgio Pasquali - copertina
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1994
1 gennaio 1994
484 p.
9788871661636

Voce della critica


recensione di Timpanaro, S., L'Indice 1994, n. 6

Con titoli di volta in volta un po' variati, i volumi delle "Pagine stravaganti" di Pasquali uscirono nell'arco di poco meno di un ventennio: "Pagine stravaganti di un filologo", Carabba, Lanciano 1933; "Pagine meno stravaganti", Sansoni, Firenze 1935; "Terre pagine stravaganti", ivi 1942; "Stravaganze quarte e supreme", Neri Pozza, Venezia 1951 (supreme nel senso di "ultime", con un latinismo scherzoso-triste; Pasquali pensava da tempo alla morte, anche se non poteva prevedere che essa l'avrebbe colto improvvisa nel luglio del '52 per un incidente stradale; tuttavia aveva fatto ancora in tempo, qualche mese prima, a preparare una nuova edizione, con due importanti aggiunte, del primo volume: "Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo", De Silva [La Nuova Italia], Firenze 1952). Nel 1968 la casa Sansoni ripubblicò il tutto in due volumi, ma si trattò di una ristampa affrettata e un po' inaccurata, priva di due prefazioni e di un indice dei nomi. Ora, a cura di Carlo Ferdinando Russo, le "stravaganze" escono di nuovo in due volumi, con indice dei nomi e con un'ampia introduzione ricca di riferimenti documentarii in buona parte finora inediti, di accenni all'accoglienza che quei volumi ebbero anche da parte di non specialisti (si va da Montale a Pasolini), di notizie sulle ristampe di altri scritti pasqualiani.
"Pagine stravaganti" sembra proprio, con quella punta di civetteria, un titolo ideato da Pasquali stesso, che teneva molto a uscire dalla sua specializzazione e, nello stesso tempo, soffriva pensando che gli "impulsi centrifughi" gli impedissero di "lasciare un'orma nella sua disciplina" (cfr. I, p. VIII: cito, come qui e in seguito appare dalla numerazione romana delle pagine, dall'introduzione di C. F. Russo). Ma già Pasquali, nelle prefazioni alla terza e alla quarta serie, aveva scritto che il titolo gli era stato suggerito da "un collega spiritoso (e tuttavia non malevolo)", da "un amico faceto" che con quel titolo voleva alludere, insieme, "all'attività principale, filologica, dell'autore" da cui queste pagine si discostavano e "a certa bizzarria di carattere che nemici e più amici, verosimilmente a torto, mi attribuiscono" (quel "verosimilmente a torto" è anch'esso una civetteria, pasqualiana questa). Ma chi fosse l'"Amico faceto" Pasquali non rivelò mai pubblicamente. Dal 1978 (cfr. D. Pieraccioni in "Belfagor", XXXIII, p. 87, e C. F. Russo qui, p. XIII) sappiamo con certezza, da una lettera di Pasquali a Valgimigli (3 dicembre 1933: anche Valgimigli aveva creduto a una civetteria pasqualiana) che l'amico fu Luigi Russo. Ugo Ojetti, un letterato il cui merito principale fu l'aver fondato e diretto due riviste di buon livello, "Pegaso" e poi "Pan", in cui ospitò anche scritti di Pasquali, avrebbe preferito un titolo scialbo e adatto solo in parte, "Ricordi". Russo senior, crociano non ortodosso (anzi, sempre più eterodosso negli ultimi anni), conosceva già il contenuto del primo volume "stravagante" - come gli altri, una raccolta di articoli già pubblicati in riviste -, poiché a lui si era rivolto Pasquali per ottenere la pubblicazione presso Laterza, che di Pasquali aveva già pubblicato i "Socialisti tedeschi". Le insistenze di Russo presso Croce (i rapporti Croce-Pasquali non si erano ancora guastati) e presso Giovanni Laterza non ebbero successo: libri composti da saggi "si vendono pochissimo" (inutilmente Russo aveva cercato di prevenire l'obiezione dicendo che quello era "un libro unitario", e aggiungendo che "Pasquali ha larghe simpatie tra i giovani"). Fu fortuna che Bruno Lavagnini ospitasse il libro nella collana da lui diretta presso Carabba. Dopo il successo del primo libro, fu facile trovare editori per gli altri. Se Russo senior, nonostante la diversità di formazione e di temperamento, fu amico a Pasquali in questa e in altre occasioni (dopo la seconda guerra mondiale gli pubblicò articoli in "Belfagor"), Russo junior, allievo di Pasquali e direttore di "Belfagor" dopo la scomparsa del padre, ha dato costante incremento alla pubblicazione di inediti pasqualiani (o ripubblicazione di vecchi articoli pressoché ignorati), di scritti su Pasquali, di aggiunte alla bibliografia che era uscita negli "Studi italiani di filologia classica" a cura di Eugenio Grassi, un pasqualiano di altissimo ingegno, morto crudelmente a trentatré anni. Fa piacere, dunque, veder così bene curate da lui le "stravaganze" pasqualiane. Due sole osservazioni marginali mi siano consentite. 1) Oltre all'indice dei nomi di persone moderne, ottimamente eseguito da Flavio Rizzo, non sarebbe stato utile anche un indice degli autori antichi e "delle cose principali"? I titoli dei singoli saggi non sono sufficienti, spesso, a trovare quel che si cerca, o quello che uno non si aspetterebbe di trovare e invece c'è. 2) I due volumi sono, editorialmente, un gioiello, a cominciare dalle sopracoperte. Ma i "gioielli", inevitabilmente, costano; e quanti studiosi, specialmente giovani, potranno permettersi di spendere 90.000 lire? I libri di studio (e tali, nonostante la piacevolezza e bellezza dello stile, sono le "Pagine stravagante") non devono essere "strenne": devono avere una veste soltanto dignitosa, e costare perciò il meno possibile, che, di questi tempi, è sempre molto. Speriamo che almeno si possano leggere presto in molte biblioteche.
Come risulta da un documento edito qui per la prima volta (pp. VII sg.), Pasquali, maestro nato e proprio perciò nemico della pedagogia precettistica, pensò anzitutto alle "Pagine stravaganti" come a un libro di "politica culturale e scolastica", non molto dissimile dall'"Università di domani" che aveva pubblicato nel '23 con un appendice di Piero Calamandrei. Non soltanto dell'università, anche dell'insegnamento secondario Pasquali si occupò sempre con grande impegno e vis polemica. Sono ancora attuali questi scritti, che si trovano soprattutto nelle "Prime" e nelle "Terze" stravaganze? Lo sono, purché si tenga presente che l'interesse di Pasquali andava a una scuola di élite, non "di massa" (uso per brevità questa espressione, pur sapendo a quali e quanti equivoci può dar luogo). Pasquali consentiva in gran parte con la riforma Gentile - per questo e per altri aspetti è indispensabile anche la lettura degli scritti, vecchi ma con l'aggiunta di lunghe postille, raccolti in "Università e scuola", 1950 -, ma mirava a valorizzarne e a svilupparne, in una misura che Gentile non avrebbe mai accettato, gli aspetti "libertari", ad abolirne gli aspetti autoritari: quindi, nella scuola secondaria, contro l'onnipotenza dei presidi e la figura del preside-burocrate; contro un modo troppo rigidamente normativo, e spesso erroneamente normativo, di insegnare il latino; per l'insegnamento della geografia, quasi sempre trascurato o non conforme a ciò che avrebbe potuto davvero interessare i ragazzi; perché s'insegnasse, anche senza volerla praticare, qual era stata la pronuncia del latino in epoca classica (questo articolo, pur moderato nel tono e nelle richieste, produsse reazioni incredibilmente stupide, commiste di moralismo patriottardo e addirittura di razzismo, cfr. I, pp. 134-46); perché i ragazzi avessero tempo libero, da dedicare a letture extrascolastiche, a frequentare il teatro, a sentir musica. Molte di queste esigenze erano valide anche per l'università. Ma qui il punto essenziale era, per Pasquali, la preminenza (almeno per le facoltà umanistiche) data ai seminari in confronto alle lezioni cattedratiche (nei seminari, nel far partecipare tutti i giovani alla ricerca, Pasquali era ineguagliabile) e lo sfoltimento degli esami, che dovevano essere severi, ma pochi. Nella "politica culturale" rientrano anche le prese di posizione contro la faciloneria dei tanti "decifratori dell'etrusco" (I, pp. 344-50), sul programma dell'edizione nazionale dei classici greci e latini (edizioni scientifiche, non, come molti volevano per squallidi scopi commerciali, plagi frettolosi di lavori altrui) e sulle biblioteche (I, pp. 199-211; al saggio del 1929 Pasquali aggiunse nel '51 una postilla in cui diceva che la situazione, nel frattempo, era "in complesso piuttosto peggiorata che migliorata"; in questi ultimi decenni è peggiorata più che mai; ma qui il discorso, amarissimo, si farebbe troppo lungo).
Un altro gruppo di scritti tra i più belli di Pasquali è costituito da ricordi di studiosi (non tutti filologi classici): Comparetti, Pistelli, Warburg, Wilamowitz, Vitelli, Wackernagel, Hülsen, Barbi ( sul Barbi cfr. anche II, pp. 154-75). Si può aggiungere a questo gruppo "Il testamento di Teodoro Mommsen*, del 1951. Più d'uno ha osservato che questo scritto, pur mirabile per veridicità, ha un fondo inconsapevolmente autobiografico; e ci si è riferiti all'intima tristezza che stava dietro l'arguzia pungente, anche a una segreta scontentezza per il proprio lavoro (non così forte, però, in Pasquali come in Mommsen). Io credo che anche in ciò che Pasquali dice sulle troppo frequenti rinunce del Mommsen, pur liberale convinto, a prudere posizioni coraggiose contro provvedimenti reazionari della Germania bismarckiana e Guglielmina sia lecito scorgere spunti autocritici nei riguardi dei cedimenti di Pasquali al fascismo, che certamente vi furono, anche se poi gli costarono (e hanno continuato a costargli post mortem, alcuni decenni fa) accuse molto più aspre che a studiosi davvero globalmente e faziosamente fascisti.
Quanto ai ricordi di studiosi, bisogna dire che pochissimi hanno saputo, come Pasquali; fondere in un tutto unico la rievocazione del carattere dell'uomo e la valutazione della sua opera. Per alcuni Pasquali esprime, senza traccia di retorica, ammirazione totale (Warburg, Hülsen, Barbi, più che mai Wackernagel; anche Pistelli, del quale nelle pagine pasqualiane appaiono solo le luci, indubbie, non le ombre, che furono gravi). Il saggio sul Comparetti rimane fondamentale; ma io credo ancora che le critiche di Pasquali e di altri riguardanti la leggenda "popolare" di "Virgilio nel Medioevo", quale fu delineata dal Comparetti, siano giuste solo in parte, troppo influenzate da un uso estensivo della categoria di "romanticismo" e da un concetto idealistico di ogni cultura popolare come sottocultura (le critiche si accrebbero in II, pp. 119-51). Di questo limite idealistico risente anche il saggio, pur acuto, su "Congresso e crisi del folklore" (II, pp. 276 sgg.): lo osservò già il La Penna in un articolo sulle "Pagine stravaganti" (1952, rist. in AA.VV., "Per G. Pasquali", Pisa 1972, pp. 78 sg.), che tuttora vorremmo che fosse riletto (mi sia lecito rinviare anche alla mia premessa alla ristampa della "Preistoria della poesia romana", Firenze 1981, p. 45). Del resto, il saggio sul Barbi, pur non contenendo palinodie, rivela verso gli studi sul folklore un atteggiamento assai più comprensivo (cfr. II, pp. 446 sg.).
Il Vitelli, che aveva designato Pasquali come suo successore a Firenze, è caratterizzato mirabilmente, come uomo, come finissimo conoscitore di stile greco, come papirologo eccelso. Ma un breve accenno al disprezzo che egli aveva per ogni riflessione sul metodo in critica testuale (non soltanto per quel metodo meccanico e precettistico che Pasquali odiava egualmente) ci fa intravedere una diversità di forma mentis sulla quale, più tardi, abbiamo saputo qualcosa di più. Il tono generale del ricordo di Wilamowitz è talmente ammirato e commosso, che il lettore non si accorge di alcune non lievi riserve, che compaiono anche in altri scritti pasqualiani. Oggi sappiamo che il grande affetto di Pasquali per Wilamowitz non fu contraccambiato: il Wilamowitz, a quanto pare, rimase ferito da alcuni dissensi che Pasquali, quando partecipò ai suoi seminari berlinesi, espresse senza la dovuta venerazione per il Maestro non abituato al minimo dissenso; e si oppose con durezza e, insieme, con una certa ipocrisia a una proposta di chiamata di Pasquali in un'università tedesca (cfr. la prefazione a Pasquali, "Rapsodia sul classico", dove sono raccolti i contributi all'"enciclopedia Italiana", Roma 1986, p. 26; C. J. Classen in "G. Pasquali e la filologia classica del Novecento", a cura di F. Bornmann [Atti del Congresso su Pasquali del 1985], p. 144; e le lettere a Jaeger ed. da W. M. Calder, III, Napoli 1983, pp. 171-73 e 193, che entrambi abbiamo citato). Di tutto ciò Pasquali non dovette saper mai niente o quasi niente; se pur lo avesse saputo, avrebbe egualmente avuto ragione di difendere la memoria di Wilamowitz e la propria libertà di giudizio contro un basso attacco di Ettore Romagnoli (ristampato in appendice a "Filologia e storia", a cura di A. Ronconi, pp. 91-94). Più tardi i suoi rapporti col Romagnoli, che egli aveva sempre combattuto con lealtà e senza disconoscerne i meriti, migliorarono sul piano personale, poco prima che il Romagnoli morisse.
Ma, se la "stravaganza" intesa come rifiuto dell'angustia specialistica, come esigenza di trattare i problemi da tutti i lati, coi mezzi forniti dalle più varie discipline, rimase una caratteristica costante di tutta l'opera di Pasquali (quell'esigenza la troviamo ripetuta in tutti gli scritti di Pasquali, maggiori e minori), i volumi di cui ci occupiamo qui rivelano una tendenza ad accogliere, man mano, anche scritti più inerenti alla filologia classica e alla storia antica: non a caso la seconda serie s'intitola "Pagine meno stravaganti", e la tendenza rimane, forse anzi si accresce, nella terza serie (cfr. la prefazione, II, p. 3), nella quarta (cfr. II, p. 273), nei due scritti aggiunti alla riedizione della prima (cfr. I, p. 1). E se i saggi "specialistici" delle "Pagine meno stravaganti" (non li enumero per mancanza di spazio), pur tutti ricchi di fascino e di idee acute, non sono tra le cose filologiche migliori di Pasquali - il migliore è, direi, "Acheruns Acheruntis", cioè il più tecnico; meno tecnico e non propriamente filologico, ma mirabile per il modo con cui Pasquali seppe rivivere la concezione largamente storica che della paleografia aveva avuto il Traube, è, già nella prima serie, "Paleografia quale scienza dello spirito" -, le "Terze" s'iniziano con "La grande Roma dei Tarquinii", una sintesi geniale che ha poi avuto, per opera di archeologi e di alcuni linguisti, non confutazioni ma sviluppi (influssi greci su Roma furono ancora precedenti al VI secolo a.C.) e continua con "L'idea di Roma", importante soprattutto per l'atteggiamento di scrittori e pensatori greci di fronte ai primordi e poi alla grande espansione della potenza romana (si desidererebbe solo qualche parola sul coraggioso discorso antimperialistico di Carneade nella famosa ambasceria del 156 a.C.). Tra i saggi che in qualche modo si collegano con questo, particolare attenzione merita "Roma in Callimaco". E nella quarta serie eccellono la conferenza su Plauto (che ha i suoi precedenti in lavori più ampi, specialmente in "Plautinisches im Plautus" di E. Fraenkel, ma, a mio avviso, segna un passo avanti anche rispetto al capolavoro fraenkeliano, cfr. "Rapsodia sul classico" cit., prefaz., pp. 24 sg.) e l'articolo metodologico, del 1942, "Arte allusiva": "in poesia culta, dotta, io ricerco quelle che da qualche anno in qua non chiamo più reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni" (più oltre parla anche di "variazioni"): l'autore vuole che il lettore si accorga di un passo d'un autore precedente (talvolta quasi contemporaneo, talaltra molto più antico e divenuto "classico"), ma nello stesso tempo si mette in gara con lui, vuol superarlo in raffinatezza o in intensità: è, indagato in modo più approfondito, quello che già gli antichi rètori (e ancora Pasquali nell'"Orazio lirico") avevano chiamato 'zˆlos'. Pasquali mostra come questa procedimento si ritrovi anche nella musica, anche nelle arti figurative; ma si sofferma soprattutto sulla poesia, accennando prima a poeti italiani (qui gli esempi potevano forse essere scelti meglio: che la maggior parte della produzione petrarchistica del Cinquecento meriti la dignità di "arte allusiva", dubiterei), poi a greci e latini, soffermandosi in particolare su Virgilio. Come Croce abbia rozzamente frainteso questo saggio, altri ed io abbiamo già notato. Più tardi, del termine pasqualiano si è abusato; si è anche voluto approfondire teoricamente il concetto, col rischio di fargli perdere la sua specificità, che è l'esigenza più importante.
Su un altro articolo metodologico, anteriore di parecchi anni, "La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima" (I, pp. 288-303), è più difficile dare un giudizio equo. L'esigenza che rimane del tutto valida è la legittimità di studiare poeti-pensatori, senza per questo ridurli a filosofi professionali: in questo, Pasquali trovò un alleato in Mondolfo e (con presupposti diversi) in scritti di Jaeger in parte precedenti, in parte successivi; oppositori nel crociano-pasqualiano Perrotta e (ciò può meravigliare alquanto) in Calogero. Vi sono invece, credo, forzature nelle interpretazioni di passi singoli, specialmente eschilei; e, soprattutto, Pasquali, movendo da un'etica approssimativamente kantiane, non vide che più si afferma il libero arbitrio umano, più insolubile diviene il problema della teodicea (altrettanto insolubile diviene se, negando il libero arbitrio, si cade, con gli Stoici, in una concezione provvidenzialistica della divinità). Sul "Medioevo bizantino" la condanna, come molti hanno rilevato, è troppo sommaria, e Pasquali fa troppe concessioni a quel "valore universale, paradigmatico" della grecità classica che era risorto col neoumanesimo iaegeriano che non aveva fin allora riscosso le sue simpatie, che più tardi egli giudicherà ancor più negativamente (nella postuma "Storia dello spirito tedesco...", Firenze 1953, pp. 123 sg.); giustificati, credo, rimangono il fastidio per il bizantinismo lussurioso-decadente di romanzieri francesi e del D'Annunzio, e la preoccupazione che nelle università s'indirizzassero troppo i giovani alla bizantinistica perché nel campo greco classico ed ellenistico tutto era stato già detto; temo che oggi questa preoccupazione ritorni ad avere qualche validità.
Ripubblicando il primo volume, Pasquali, come si è accennato, vi aggiunse due scritti esemplari: "Alessandro all'oasi di Ammone e Callistene" (del 1929-30, I, pp. 213-22, dove, contro il pur grande papirologo Wilcken e contro lo storico Berve, si rivendica il diritto del filologo a interpretare esattamente una testimonianza di Callistene e s'interpreta con finezza la psicologia di Alessandro Magno, facile a credere nella propria origine e missione divina), ed "Ennio e Virgilio" ( pp. 223-40: traduzione italiana di una recensione all'"Ennius und Vergilius" del Norden, uscita in una rivista tedesca nel 1915 e rimasta, a causa della guerra, pressoché ignota; del resto alcune osservazioni di Pasquali non hanno avuto, nemmeno dopo, il riconoscimento che meritavano).
Dell'interesse di Pasquali per la linguistica greca, latina e, specialmente da ultimo, anche italiana, i documenti vanno cercati soprattutto altrove. Ma qui (I, pp. 123-33; II, pp. 329-35) sono ripubblicati due articoli-recensioni di prim'ordine: "Il latino in iscorcio" (sull'"Esquisse d'une histoire de la langue latine" di A. Meillet, "il maggiore di tutti i glottologi francesi e il più lucido di tutti i glottologi viventi") e "Lingua latina dell'uso" (sulla "Lateinische Umgangssprache" di J. B. Hofmann: qui i meriti dell'insigne studioso sono riconosciuti, ma forti sono le obiezioni: specialmente, eccessivo appiattimento sincronico, erronea identificazione di "lingua usuale" e "linguaggio affettivo"; è stata ottima cosa che il volumetto di Hofmann, pur sempre prezioso, sia stato tradotto e curato da Licinia Ricottilli e sia giunto alla seconda edizione, Bologna 1985; ma rimane in me l'impressione che l'entusiasmo della curatrice, basato del resto su vasta conoscenza di linguistica teorica recente, sia un po' eccessivo: d'altronde, nelle note, essa dà sempre ragione alle singole obiezioni di Pasquali e di altri critici). Ma anche su autori moderni vi sono saggi da non dimenticare: "Poesia latina di Pascoli" e "Classicismo e classicità in G. D'Annunzio" (II, pp. 176-89 e 190-204). Sul Pascoli latino abbiamo oggi un insieme di lavori di Alfonso Traina, che hanno portato questi studi a un livello difficilmente superabile; rimane a Pasquali il merito di aver veduto per primo nel Pascoli latino, contro Croce, "l'arte e gli spiriti del Pascoli italiano", non la consunta tradizione della poesia latina della Controriforma, n‚ un mero riecheggiamento dei poeti antichi, che egli pur conosceva a fondo.
Vi sono, certo, in questi volumi anche scritti che possono esser goduti anche da chi non s'interessi di studi filologici n‚ di riforme scolastiche: il fine, ben noto "Ritorno a Gottinga", il "Ricordo dell'aviatore" Francesco Brunetti (che io rileggo con grande rispetto e pietas senza potermi liberare dalla consapevolezza che l'"ideale umano" impersonato da Brunetti è troppo lontano dalle mie idee), il "Ricordo di Cesarino Paoli" (questo, sì, mi commuove senza riserve), "I1 "Cuore" di De Amicis", che Pasquali legge insieme con un nipotino, e il modo di leggere, impaziente, di un bambino è caratterizzato perfettamente, e su "Cuore" vi sono osservazioni nuove e acute, ma sul cosiddetto "socialismo deamicisiano" c'è un fraintendimento duro a morire: "Cuore" è anteriore alla conversione di De Amicis al socialismo, che fu una vera e seria conversione anche quanto a informazione teorica, con una forte tendenza a far proprii anche motivi anarchici, e dette luogo a un romanzo, "Primo Maggio", che l'autore rinunciò a rifinire e a pubblicare (è uscito postumo nel 1980), senza per ciò venir meno alle proprie idee: un romanzo che non è un capolavoro, e tuttavia non si può sottovalutare nemmeno sul piano artistico. La discussione è ancora aperta: che cosa oggi ne avrebbe pensato Pasquali, è del tutto vano chiedersi. Molto altro ci sarebbe da dire su libri così pieni d'intelligenza e di fascino. Ma temo di aver già violato le esigenze di spazio dell'"Indice", e mi fermo.


recensione di Garin, E., L'Indice 1994, n. 6

Tornano, in due grossi volumi di oltre novecento pagine, tutte le "stravaganze" di Giorgio Pasquali. Uscite in origine fra il 1933 e il 1951 in quattro volumi presso editori vari, vengono ora rilanciate dalla casa editrice Le Lettere, con alcune pagine di presentazione di Carlo Ferdinando Russo dal titolo seducente "Storia e voluttà fra Tevere e Arno". Sono pagine che ci ricordano, fra l'altro, che fu proprio Luigi Russo "l'amico faceto che battezzò il primo libro" della serie, come lo stesso Pasquali sottolineava presentando le "Stravaganze quarte e supreme" a Calendimaggio 1951, un anno prima di scomparire. Luigi Russo aveva anzi cercato invano di far pubblicare da Laterza nel '33 quel primo volume "stravagante" così ricco e singolare. Cosi, senza parere, Carlo Ferdinando Russo ci ricorda oggi anche tante altre cose: dal successo immediato e diffuso anche fuori d'Italia di certi "ritratti" come quelli di Wilamowitz o di Warburg fino al corvo di "Uccellacci e uccellini" di Pier Paolo Pasolini che nel '65 gracchiava ancora il nome di Giorgio Pasquali. Ma, oltre a ricordare, C. F. Russo precisa, integra, informa, aggiunge indicazioni preziose.
Nel '68 Pugliese Carratelli osservava quanto sia difficile da sempre dire di Pasquali, e soprattutto delle "Pagine stravaganti", ossia di scritture "estranee all'attività principale, filologica, dell'autore" (articoli, recensioni, conferenze), eppure così legate non solo alla sua filologia ma alla sua curiosità di studioso onnivoro, di lettore instancabile, di uomo di cultura inquieto sempre e talora bizzarro, ma soprattutto di maestro nel significato più alto e completo della parola: certo maestro universitario eccezionale, ma maestro sempre, e senza parere, del primo ragazzino curioso incontrato per strada come dell'uomo che cerca di riflettere e di capire.
Certo "Storia della tradizione e critica del testo" resta il libro di Pasquali: a parte il suo preciso peso scientifico, un libro a cui debbono una lezione severa quanti a un qualche momento si sono impegnati in studi storici. Eppure le "Pagine stravaganti" nel loro complesso sono degne di collocarglisi accanto, con tutto quello che già tale connessione si dice dell'autore. Si tratta infatti di un'opera estremamente complessa che nella sua apparente frammentarietà si lega in modo originale a campi molteplici. Ha pagine di grande raffinatezza e, a un tempo, di rara penetrazione; consente di vedere a fondo momenti importanti della cultura europea fra Ottocento e Novecento; ritrae personaggi d'eccezione; e tutto in una forma sobria eppure sempre viva e palpitante. Per fare un esempio solo, si prenda il saggio su Aby Warburg della primavera del '30 e lo si rilegga ora, dopo tutto quello che di Warburg si è detto, e che Warburg. è stato, e dopo tanta eco dell'opera sua, e si capirà forse che cosa fosse nella cultura e nella scuola quel professore che alla fine degli anni venti discorreva già a quel modo con i giovani che studiavano con lui.
Molto difficile, comunque, dire oggi di questo Pasquali, oltre che di Pasquali in genere, soprattutto quando lo si sia conosciuto bene, come è capitato a chi scrive queste righe. Il testo con cui si apre il primo di questi volumi lo ascoltai studente all'Università di Firenze nel gennaio del '27, quando Pasquali commemorò nel suo modo inimitabile il suo insigne collega Domenico Comparetti morto allora. Secondo l'antica consuetudine accademica quasi sempre tali commemorazioni, nella loro retorica, sono più tristi della morte; ma non quando Pasquali tracciò quel ritratto commosso e acutissimo che, fra l'altro, spinse subito il ragazzo che l'ascoltava a cercare e a leggere quell'opera singolare che è il "Virgilio nel Medioevo". Quasi un quarto di secolo dopo, ormai suo collega in quella facoltà fiorentina in cui avevo studiato, ricordo di avere discorso più volte e a lungo con lui delle "Stravaganze quarte e supreme" uscite allora: dalle sue riflessioni cosi significative sulla cupa amarezza del testamento di Mommsen alle mie perplessità sul suo lucido e sicuro "Medioevo bizantino". Ma soprattutto discorrevo con lui, più ancora che di Platone, degli studenti, dei seminari e del modo di vivere e di operare in una scuola universitaria che andava rapidamente mutando sotto i nostri occhi in quel complicato dopoguerra. Pasquali; infatti, studioso in più campi geniale, pieno di interessi e di curiosità d'ogni genere, e sempre generoso di spunti straordinari, fu innanzitutto un maestro eccezionale. Dire di lui, dotto di altissimo livello, che la scuola fu lo scenario di tutta la sua vita, può sembrare retorico, ma è pura verità. Né so dimenticare che, per avendolo conosciuto quando ero ancora un ragazzino (aveva fatto amicizia con mio padre alla scuola di Girolamo Vitelli), riusciva sempre a meravigliarmi e a confondermi quando frequentavo l'università, per non avendo mai seguito i suoi corsi ("facevo" filosofia). Attaccava discorso con tutti: nei corridoi, in biblioteca (si trovava sempre in qualche biblioteca), per la strada, al caffè. Chiedeva delle nostre letture, parlava di teatro, dei libri, col suo modo inimitabile, e poi, d'un tratto, "fuggiva". Ma intanto aveva detto la sua, così di un testo di Freud come di un verso osceno di Plauto, di un'attrice che recitava al teatro Niccolini o di un concerto a cui lo avevamo incontrato. E avrebbe ricominciato, magari passeggiando con un piccolo gruppo sui colli.
Aveva capito il nesso profondo fra insegnamento (non solo universitario, ma a ogni livello) e ricerca teorica e indagine storica, e, più a fondo, fra scuola e concezione della vita. Proprio in quel nesso, anzi, sono da cercarsi le radici del suo più fecondo lavoro di studioso: il dialogo serrato, non solo con Comparetti e Vitelli, ma con Mommsen e Wilamowitz, e, più a fondo, con Usener e con Warburg, magari con un segreto richiamo a Nietzsche. E poi pagine non dimenticabili su Pistelli, anzi su Padre Pistelli, sul suo modo di vivere la vita dell'Ordine, sulla sua filologia, sui suoi rapporti con Villari e Savonarola, sui bambini e "Le pistole d'Omero": i bambini per cui aveva perfino fatto "politica" e che, morente, voleva intorno alla sua bara. Non è facile, credo, leggere bene oggi queste "stravaganze", così unitarie nel fondo, anche se distese lungo un quarto di secolo, e così diverse, a prima vista, nei toni e negli spunti. Ma Pasquali era proprio così: ti dava l'impressione di fare dei salti fra motivi lontani, e poi ti accorgevi del nesso di fondo di un discorso unitario. Cosi certo non a caso, proprio parlando del suo Wilamowitz, si abbandonava ad asserzioni di principio ("non si può essere filologo grande senza essere storico"), o a nette preclusioni ("intender tutto Platone senz'essere filosofo è impresa disperata"), ricordando insieme il giovanile scontro di Wilamowitz con Nietzsche e il suo libro su Platone del 1919, lui che proprio allora scriveva sottili "stravaganze" sui "concetti etici nella Grecia antichissima" (e avrebbe scritto un libro su "Le lettere di Platone").
In realtà i volumi delle "Pagine stravaganti", con quel loro saltare nei decenni per riprendere a distanza sempre gli stessi argomenti, sottolineano, per chi sappia leggere, una sistematica esplorazione di alcuni aspetti della cultura europea fra Ottocento e Novecento. Si potrà dissentire, si dovrà soprattutto sentire il peso del tempo che è passato sui Pascoli e sui D'Annunzio. Emerge comunque dalle diecine di scritti un panorama singolarmente unitario della vita culturale italiana nella molteplicità dei suoi aspetti e nel suo confronto con la cultura europea, specialmente di lingua tedesca. E se sembrano predominare gli studi di filologia classica, in realtà svelano i loro problemi e i loro segreti gli editori di testi antichi e moderni, i papirologi, i medievalisti; i linguisti, i giuristi, gli storici dell'arte, i bibliotecari - nella vicenda dolorosa degli uomini fra una guerra e l'altra, fra una tirannide e una persecuzione. Al centro la scuola come esemplare punto d'incontro fra uomini e generazioni, in cui le stesse divergenze possono confrontarsi e risolversi. Se si riusciranno a leggere come la memoria di un'epoca, fra l'avvio della prima guerra mondiale e l'esito della seconda, nei suoi dibattiti culturali più alti, ma anche in certi echi equivoci e sciocchi del fascismo imperante, le "stravaganze" di Pasquali appariranno, come sono, uno dei grandi libri di un'epoca drammatica, ma quasi purificata e pacificata attraverso la scuola. Come scrive Pasquali nell'indimenticabile "Ritorno a Gottinga": "Sono tornato alla città della mia giovinezza, accademica eppure non disumana,...dopo anni e anni..."

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Conosci l'autore

Giorgio Pasquali

1885, Roma

Uno dei massimi filologi classici italiani. Allievo di F. Leo e U. von Wilamowitz, insegnò letteratura greca a Firenze, diresse gli "Studi italiani di filologia classica" e curò le edizioni critiche di Teofrasto. del "Cratilo" di Platone e delle "Epistole " di Gregorio di Nissa. Teorico di una filologia "totale", capace cioè di utilizzare qualsiasi forma di indagine critica, seppe dar valore alle differenti vie di trasmissione di un testo. Ha lasciato scritti teorici fondamentali: "Filologia e storia" (1920), "Storia della tradizione e critica del testo" (1934), "Orazio lirico" (1920), "Le lettere di Platone" (1936), "storia dello spirito tedesco nelle memorie di un contemporaneo" (1935). Ha lasciato anche raffinate testimonianze della sua dottrina raccolte in "Pagine...

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