Paolo Nori è uno scrittore. Non è un dettaglio che si apprende navigando in rete o bighellonando tra gli scaffali di una libreria. Lo si capisce solo leggendolo: un vero scrittore è uno che non dimentica mai di essere un essere umano. E per parlare di Auschwitz, di Olocausto, dei campi di concentramento, della tanto bistrattata memoria, serve sì l'addolorata austerità di Primo Levi, di Bertolt Brecht, di Hannah Arendt, ma c'è bisogno anche della "leggerezza pensosa" e pensata di Nori. Nell'incipit di uno dei suoi romanzi più noti, Bassotuba non c'è, Nori presenta al lettore la sua dichiarazione di poetica, che è anche una sintesi efficace dell'uso personalissimo che fa della lingua italiana: "Io sono quello che non ce la faccio". Non si tratta di mero minimalismo, se non inteso nella sua accezione migliore. È un elogio della normalità, un encomio del quotidiano, un panegirico dei gesti semplici e di cui nessuno s'accorge. Nori educa i lettori all'incoscienza, a non farsi contaminare e corrompere dalle letture e dai fatti, a conservare la "poesia ingenua" dell'infanzia e lo stupore: "Ecco voi, domani, secondo me, avete, se posso permettermi, un privilegio, che vedrete Birkenau per la prima volta nella vostra vita, e io, dopo fate come volete, ma io credo che vi convenga provare a guardarlo da deficienti, con gli occhi del deficiente che vive dentro di voi, e se sapete qualcosa, per le due ore che sarete lì, al mattino, dimenticatevelo, guardate, usate gli occhi, sentite gli odori, sentite quel che vi dicono le guide come se fosse la prima volta che sentite quelle cose, fate funzionare quella macchina dello stupore che avete, tutti, dentro la pancia". Nori, quando deve raccontare il "rumore dei treni", la storia, si finge quasi disinteressato, non all'altezza, offeso dall'obbligo e dall'oblio di alcune ricorrenze oramai svuotate di senso e di coscienza. E allora comincia a discorrere di letteratura russa, che lesse con passione, cui dedicò la tesi di laurea e che adesso, finalmente, traduce (Chlebnikov, Gogol', Pukin, Tolstoj, Charms); della figlia Irma e delle passeggiate con lei, che l'hanno confuso, distratto, salvato, e sono anche meglio della letteratura russa letta e tradotta; della Certosa, che tutti riconoscono a Parma, ma che altri vorrebbero a Modena. È la cosiddetta divagazione, ostile al lettore dell'utile, che vorrebbe che si arrivasse al punto, anche se non ha chiaro quale sia questo punto. E poi il punto arriva, inaspettato, quando ormai il lettore dell'utile aveva perso le speranze, e allora è costretto a ricredersi e a rivalutare quegli aspetti che prima lui credeva marginali. Come la giornata della memoria, la festa della donna, il venticinque aprile. Nessuno può dirci quand'è che è giusto ricordare e quando no: "Anche se è strano, chiamare la cosa di cui parliamo oggi un argomento, non è mica un argomento, è una cosa dentro la quale c'è un po' tutto". È una cosa che fa parte della vita di tutti i giorni e non di uno o due, se capita. E in questi "tre" discorsi, Nori si accompagna a diversi autori, Ourednik, Rodari, Kapuściński, Delfini, e dialoga apertamente con loro. Nori si tira fuori dall'ambiente accademico, dai cenacoli privati e dall'elitarismo delle varie tendenze, e capisce che scrittura e lettura coincidono, sapendo condividere senza ostentare. Scrive bene Calvino: attraverso la letteratura "s'aprono sempre altre vie da esplorare".
Giorgio Biferali
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