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Poche operazioni sono difficili come scrivere una monografia su Zorzi da Castelfranco detto Giorgione, che sia insieme scientificamente agguerrita, ma destinata alla lettura anche di un pubblico non specialista. Ci troviamo infatti dinanzi all'opera di un pittore veneziano attivo a cavallo tra fine XVI e inizio XVII secolo, nato forse nel 1478 e morto certamente nel 1510, di cui possediamo pochi dipinti certamente autografi, pochissimi documenti d'archivio, eppure accompagnato nella storiografia anche più antica dalla consapevolezza di aver rappresentato un punto di svolta nell'arte lagunare e non solo. A questo si aggiunga la scivolosità della cronologia anche per i quadri ammessi da tutti gli studiosi e l'insuperabile ambiguità iconografica della maggior parte delle sue invenzioni visive.
Eppure si può dire subito che questo libro raggiunge pienamente l'obiettivo, grazie non solo a una competenza agita in profondità, che permette dense sintesi senza l'appesantimento di inutili sfoggi di erudizione (che pure, lo si avverte bene, c'è ed è molto sorvegliata), e a un apparato iconografico di grande impatto ma che cosa non irrilevante da segnalare in un libro "di lusso" si muove sempre su una logica dialettica e non meramente esornativa; ma grazie anche a una "regia" narrativa che non affronta subito di petto l'oggetto principale dello studio, ma, giustamente dato lo stato delle nostre conoscenze, lo avvicina con progressivi accerchiamenti. Siamo così prima introdotti alle scarse informazioni disponibili, poi alle fonti più antiche, per arrivare a un panorama, veloce ma efficace, della situazione veneziana nel momento in cui "Zorzi" (così viene sempre chiamato il pittore lungo lo sdipanarsi del libro) esordisce.
Naturalmente non si può riassumere il percorso di Giorgione, come viene restituito da Dal Pozzolo, in poche righe; vorrei solo sottolineare alcune cose, come l'accoglimento della cronologia sul 1500, già avanzata da Ballarin e talvolta messa in dubbio, per la pala di Castelfranco, commissionata da Tuzio Costanzo, non senza la lontana supervisione del cardinale Domenico Grimani: o la conclusione, che mi pare del tutto convincente, aperta su una fase in qualche modo contraddittoria ma pronta a nuove esplosioni, aperta addirittura al parallelo con Michelangelo (forse il possibile contatto tra i due andrebbe approfondito) "sul fronte della forzatura se non della scardinatura del classicismo allora imperante tra Venezia, Firenze e Roma": quasi che le successive vicende romane di un probabile "creato" di Zorzi come Sebastiano del Piombo suggeriscano davvero quale direzione avrebbe preso la pittura di Giorgione se non fosse intervenuta la morte. È anche molto plausibile l'idea del contatto con Leonardo, non solo nel 1500 ma anche, e più, nel 1506: più ancora della Gioconda, un'opera come il San Giovanni Battista del Louvre dialoga con i mezzi busti "terribilmente cacciati di scuro" di Giorgione, secondo un legame già avvertito con precisione da Vasari nel 1550, ma che potrebbe essere stato non solo unidirezionale. Quest'ultima osservazione coinvolge poi i legami tra il veneziano e i pittori lombardi: non solo Solario e Giovanni Agostino da Lodi, ma, sempre biunivocamente, anche Boltraffio e fatto su cui si dovrà pur riflettere Bramantino. La Giuditta del Duomo di Montagnana (come la si vede in una foto prima del "restauro" degli anni trenta) è esplicita in tal senso, come sul fronte opposto lo è il San Sebastiano del Suardi di collezione privata.
Ultima nota, la prudenza dell'autore nell'esegesi iconologica, che già tante voci ha accumulato: e basta il resoconto, inevitabilmente ironico pur nella sua freddezza, delle passate interpretazioni della Tempesta oggi alle Gallerie dell'Accademia di Venezia.
Edoardo Villata
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