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Nel ricomporre ogni figura, raccogliendone con rispetto ciascun frammento, attraverso gl’incontri con familiari e amici, ricostruendo, fino all’ultimo tragico istante, quelle presenze spezzate, l’A. narra una cinquantina di storie, tutte emblematiche per diversi aspetti, talora intrecciate l’una all’altra, per lo più legate da un filo d’Arianna paradossale, che porta, in un tragico cammino a ritroso, alla Shoah, vissuta direttamente dagli uccisi o dai loro congiunti. Egli non si addentra in disquisizioni di carattere politico su un tema i cui aspetti di fondo non sono di carattere territoriale, bensì religioso e direi esistenziale; tuttavia compie una precisa scelta di campo, senza timore di apparire politicamente scorretto. E’ un’opera di giustizia nei confronti di un attore della vicenda, il popolo israeliano, per lo più trascurato dagli organi di informazione. Il giornalista svolge il suo compito con la passione di chi non è parte per nascita di quel mondo al quale si è avvicinato per scrivere quest’opera, tra l’altro documentatissima e ricca di significative immagini, frutto di una ricerca durata cinque anni. “Martiri” perché testimoni del loro impegno nella quotidianità, quella vita normale che il nemico vorrebbe toglierti per sempre. Ma è proprio un certo spirito smitizzante -unito ad un ethos nazionale in grado di far sì che le tante “tribù”, sovente in contrasto tra loro, di cui è composto il Popolo di Israele riescano ad essere un tutt’uno- che consentirà di continuare a danzare, com’è scritto sul monumento commemorativo dei 21 adolescenti immigrati dalla Russia, uccisi, la sera dell’1 giugno 2001, davanti alla discoteca sul lungomare di Tel Aviv: Scegli la vita, non smetteremo di danzare, Lachaim, lo nafsik lirkode.
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