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Dettagli

1997
1 gennaio 1997
220 p.
9788872851395

Voce della critica


recensione di Ciafaloni, F., L'Indice 1997, n. 9

Molti di noi, quelli abbastanza vicini ma non interni alla storia dei metalmeccanici, quelli che non hanno lavorato a Brescia, hanno conosciuto Pio Galli (conosciuto in occasioni pubbliche, nel mio caso) da segretario generale dei meccanici, e lo connettono soprattutto allo scontro finale degli anni settanta, ai 35 giorni di Mirafiori. Questo però non è un libro sui 35 giorni, neppure un libro di storia sindacale. Molti hanno scritto sui 35 giorni. Anche Pio Galli lo ha fatto altrove. Ma qui si limita a qualche accenno.
Questa è l'autobiografia di un operaio, di un partigiano, di un sindacalista; ma soprattutto di un ragazzo figlio di operai che diventa operaio. Il baricentro sta, oggi, nella memoria, ancora più che ieri nel reale trascorrere dei giorni, nella famiglia, nei compagni, nel paese, nei rapporti personali, di amicizia e di lealtà, nati nel paese e nel lavoro, non nella politica. Dopo tutto Pio Galli è stato licenziato nel gennaio del '43, quarantaquattro anni fa, ha vissuto da sindacalista di professione ben più di metà della vita. Ma lui con la testa, con la memoria, sta l", tra Rancio e Lecco, come se non fosse mai partito. La "parte sola" con cui sta è quella parte l", quella in cui è nato, è diventato se stesso, ha imparato anche quel particolare modo di concepire la politica come moralità e servizio per il bene e la difesa dei compagni che è la sostanza stessa del movimento operaio. Proprio per questo il libro è interessante, importante. Ce ne sono stati molti di sindacalisti così, rimasti in officina con la testa, legati a una lealtà primaria e assoluta nei confronti dei propri compagni, molti che, come Pio Galli, forse più di lui, non sono mai diventati uomini dell'organizzazione.
Fosse per la parte politico-sindacale in senso stretto il libro si potrebbe anche non leggere. Ci sono gli episodi sulla composizione delle segreterie, le alleanze, le opinioni e le posizioni dei grandi leader del sindacato e dei partiti, senza cui le nomine non si facevano. Ma sono episodi che si somigliano tutti, che sembra già di aver sentito, ma erano altre persone e altre segreterie, che sembrano più vecchi della loro età. La storia del sindacato prende corpo e senso in alcune altre, pochissime, autobiografie.
Quello che è insolito, che non si è sentito tante volte, è il senso della misura, la modestia e anche il minimizzare quando si parla di sé. Non sono molti quelli che a uno che ti dice che ti vuol proporre come segretario generale, uno che non è l'ultimo passante ma Bruno Trentin, rispondono: "Pensi a me? Non sono all'altezza. So misurarmi. I segretari generali della Fiom sono stati Buozzi, Roveda, Novella, Lama, poi Trentin. E adesso Galli?".
Naturalmente c'è una parte politica interessante, quella del rapporto con le sedi locali e con la difesa del loro spazio: quella del tentativo di mantenere l'unità sindacale all'interno di una sola categoria. Ma si tratta di posizioni ed eventi abbastanza noti.Meno noti sono altri episodi, più umani che sindacali, come quello della morte di Giuseppe Di Vittorio (di cui non conoscevo i particolari), così amendoliana, così dimessa, così triste e così coerente da sembrare inventata.
Di Vittorio è andato a Como per un discorso. Poi dovrà tornare a Roma e partire per l'Unione Sovietica (figuriamoci come sarà stato entusiasta Di Vittorio di questo viaggio di rappresentanza). Perciò lo accompagna la moglie. Lui è nero, terreo, taciturno; evidentemente non sta bene. A Como gli hanno preso un albergo senza riscaldamento. Lui non protesta, ma protesta la moglie, perché lui avrebbe bisogno di un bagno caldo. Perciò lo trasferiscono. I medici gli proibiscono di muoversi. Di tornare a Roma neppure parlarne. Ma è troppo tardi. Mentre Pio Galli sta parlando in sua vece Di Vittorio ha un malore e, malgrado i tentativi di rianimazione, muore. Sul campo, come si dice.
Dello stesso tipo, per fortuna senza conseguenze tragiche, è il malore di Pio Galli per un embolo all'occhio. Per troppe sigarette e "per troppo poco sonno", come avrebbe detto Fortini.
Ma, dicevo, la parte centrale, importante, del libro è quella strettamente autobiografica, il paese, la famiglia, la miseria, la fame, il lavoro come uscita dalla miseria, come risorsa, anche se è un lavoro duro e nocivo. Come vivevano gli italiani, i lavoratori italiani, non i barboni o gli emarginati, non i cafoni meridionali, i montanari, ma gli operai di un pezzo industriale d'Italia, molti di quelli che hanno l'età per saperlo hanno dimenticato. I giovani non lo hanno mai saputo. Pio Galli è figlio di un operaio siderurgico ex contadino, relativamente stabile, uno che starà alla fossa di colata alla Caleotto quando ci lavorerà anche lui e tenterà la resistenza a oltranza per cui sarà licenziato, uno che non lavora proprio sempre, anche perché non si iscrive al fascio, ma lavora spesso, uno che non ha quasi grilli per la testa, di cui si ricorda qualche sbronza solenne, che una volta si è mangiato il pranzo di Natale con gli amici, che fuma qualche sigaretta, ma che in sostanza porta a casa quel che guadagna.
Ma quanto guadagna? Guadagna ottanta lire la quindicina, se tutto va bene, cioè se il lavoro è continuo, quando il pacchetto di Popolari costa una lira. Potrebbe permettersi la bellezza di cinque pacchetti di sigarette al giorno, che è davvero troppo. Poi ti viene il cancro. Ma se uno ci vuole anche dare da mangiare alla moglie e ai figli, e tenerli sotto un tetto, e vestirli e calzarli, e riscaldarli d'inverno, il discorso si complica. Fa freddo a Lecco d'inverno e c'è la nebbia, perché il cielo di Lombardia sarà anche "bello quando è bello", ma spesso non lo è. C'era la nebbia quando mor" Di Vittorio. E la nebbia accompagnava il padre al lavoro.
Loro nella stufa in genere non mettevano legna. "Per riscaldarci si usava anche la segatura", segatura intrisa di olii, usata per ripulire i chiodi dalla ruggine nelle officine. "In officina l'avrebbero buttata. Noi ci riempivamo il forno della stufa, pressandola bene intorno a una bottiglia. Bruciava lentamente. Non bastava per cucinare, ma dava un discreto tepore e non costava niente. La sera, quando faceva più freddo, usavamo la legna".
Anche per mangiare ci si arrangiava. "Il ricordo più vivo è la fame. Ero pieno di foruncoli e il medico del paese diceva che avevo bisogno di vitamine. Si mangiava minestra alla sera; insalata, formaggio o mortadella di giorno... La famiglia era numerosa e i soldi non bastavano neanche per mangiare. I miei avevano accumulato un bel debito con il negoziante di generi alimentari, che si chiamava Scigula, che vuol dire cipolla... Riuscimmo a finire di pagarlo soltanto due o tre anni dopo il trasferimento a Lecco, quando anch'io cominciai a portare a casa qualche soldo".
Gli diceva il padre: "Piu, vaa cumprà el pan; to' du o tri sarac. Stac atent' al pes'". Mangiavano sareche, cioè saraghi sotto sale, e sardelle, come da noi.
"Era una lotta quotidiana per sopravvivere; te ne rendevi conto anche se eri bambino, perché dovevi fare la tua parte per tirare avanti. Dopo la scuola, prima del buio, andavo a pescare nel fiume. Avevo trovato una canna di bambù abbastanza elastica. I vermi per la lenza, le "ambrottole", li cercavo tra pile di letame. Se portavo a casa qualche pesce si mangiava di più. Oppure dovevo andare nei boschi per funghi o nei prati a raccogliere cicoria o erbette di campo, che avevano foglie come quelle degli spinaci. La maggior parte del cibo te la dovevi procurare, non c'era denaro per comprarlo". Siamo sempre l", alle erbe "di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere".
"Il compito più faticoso era far legna. Non si azzardavano a mandarmici da solo". Ci andava col padre, per aggiungere qualcosa alla segatura. E per le scarpe e i vestiti? "Le prime scarpe le ho messe a otto anni. Prima ho sempre portato gli zoccoli. Il legno si consumava in fretta. Si aprivano a metà e mi ferivano le dita dei piedi. Mio padre li rimetteva insieme con i chiodi, ma dopo un po' si rompevano di nuovo. Allora andavo a piedi nudi. Le calze le mettevo solo per andare a scuola quando faceva freddo, erano calzerotti che faceva mia madre. Non ho mai portato le mutande. Avevo i pantaloni con la patenda, che si aprivano dietro come quelli dei sanculotti".
Non c'è da stupirsi che la mortalità infantile fosse alta. "La miseria la sentivi. I due più piccoli morirono di difterite e di un'altra malattia infettiva. Ho qualche ricordo solo della sorellina, Luigia, morta a due anni e mezzo, mentre il fratellino mor" nel primo anno. Per un po' andai al cimitero a portarle qualche margherita. Anche Renato, che era nato tre anni dopo di me era spesso malato. Fu anche ricoverato in sanatorio per alcuni mesi".
Cos" andava il mondo. E che andasse così nell'Italia contadina non è un mistero per nessuno. La ritualità stessa della morte dei bambini era profondamente diversa da quella degli adulti. Altrimenti la vita sarebbe stata un eterno lutto. Ma andava così anche nell'Italia dell'industria tessile, metalmeccanica e siderurgica. C'è la tubercolosi endemica, la morte frequente, la disgregazione delle famiglie per emigrazione e miseria, il difficile rapporto con i ritornati, il lavoro duro e pericoloso. "Per risparmiare i Rusconi compravano molle da letto usate e ne ricavavano il filo per fare i chiodi. Era buono perché era d'acciaio. Però era arrugginito. Allora per evitare che rovinasse troppo spesso il martello e i coltelli, mentre la macchina era in funzione dovevo star l" con uno straccio imbevuto di olio bruciato e buttarglielo sopra. Se il filo andava dentro ben oliato si evitava l'usura precoce degli attrezzi. Però la macchina mi schizzava addosso chili di olio nero; mia madre mi lavava con la spazzola per tirare via il grasso. Cominciavo a stufarmi".
Questo non impediva di conservare la propria dignità. Quando Pio risparmia tutti i suoi soldini per comprarsi la divisa da balilla, per essere come tutti, il padre gliela brucia. Quando uno spiraglio si apre, Pio impara il mestiere, fa il capolavoro. Quando la sconfitta e lo sfascio costringono una generazione a salire in montagna, Pio è tra i primi della sua generazione.
Non è una storia partigiana retorica e gonfia. Tutt'altro. È una storia alla Meneghello, piena di inesperienza e di sbagli. Ma anche di rischi reali, di paure, di botte, di valore. Alla fine torna la pace, e il burro, che è sempre poco. Nascono i conflitti in fabbrica; la voglia di vincere che impedisce di percepire il cambiamento dei tempi, la durezza del conflitto, la necessità di avere sempre tutti i compagni dalla propria parte, di rappresentarli tutti.
Viene il tempo del passaggio all'attività sindacale, mentre, nella vita, arrivano il matrimonio, i figli, i trasferimenti. Un passaggio senza sbavature; con una grande trasformazione nel linguaggio, in ciò che si fa tutti i giorni, nella vita; ma sempre da una parte sola.
Forse a rappresentare il dover essere di molti sindacalisti della generazione di Galli può servire una sua citazione di Di Vittorio, una citazione dall'ultimo suo discorso, pronunciato con fatica, poco prima di morire ("lui, già molto scuro di pelle, era ancora più scuro. Entrò nella sala gremita con passo incerto"): "Uno che sceglie di militare nel sindacato deve essere soddisfatto perché dedica il proprio impegno, la propria intelligenza a sollevare le condizioni di vita degli uomini e delle donne. E quando torna a casa può dire: oggi sono contento perché ho fatto il mio dovere in difesa degli altri". Molti ci hanno provato davvero a essere così.

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