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inizio intrigante, peccato che quella vena di surreale che ne avrebbe fatto un capolavoro sconfini poi nell'assurdo.
Tutta svolta in una stanza, che poi le stanze siano due poco importa, questa vicenda è il miglior dramma che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. C'è Strindberg, Artaud, Ibsen. C'è l'uomo e il suo doppio, c'è l'estremismo di due vite uniche - anche nel senso del comune percorso raccontato a due voci - c'è in comune un amore, un figlio, il gusto degli opposti, la natura potente. E' poi c'è una narratrice/pubblico/alter ego dello scrittore, talmente curiosa da chiedersi se non sia lei a costruire la doppia storia delle due vite. Fino alla fine. Un romanzo da leggere tutto d'un fiato, senza pause.
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Che Torgny Lindgren (1938) sia uno dei più grandi narratori europei di questi ultimi vent'anni lo sapevamo dal possente eppure lieve affresco biblico di Betsabea (1984; Iperborea, 1988), dai luoghi ancestrali di una Svezia arcaica e contadina del Sentiero del serpente sulla roccia (1982; Il Quadrante, 1987), dal magnifico libro di racconti La bellezza di Merab (1983; Iperborea, 1990) e anche dal fantasioso divertimento contemporaneo di Per Amore della verità (1991; Iperborea, 1997).
Miele, però, è un'altra faccenda, una conferma e un salto di qualità: una di quelle opere necessarie e definitive, che nella loro mirabile concentrazione e agghiacciante simmetria - nella forma impeccabile, insomma - contengono tutta una vita di gioie e sofferenze irriducibili a un ordine, ancora immediate, tangibili, guizzanti. Un breve romanzo, o novella, che ha l'essenzialità esemplare dell'apologo: dove ogni dettaglio è riconoscibile nella sua portata simbolica, e tuttavia conserva gelosamente la propria concretezza, come un sapore (la dolcezza del miele di calabrone, il salato della carne di maiale) che non si può descrivere, può essere provato solo fisicamente, sentito con la lingua, il palato, nella forza o spossatezza che gradualmente s'impadronisce del corpo.
Ambientato in un remoto villaggio del nord della Svezia, dove la nevicata di una notte può isolare un borgo per giorni e giorni, il libro racconta dell'ostilità di due fratelli, Hadar e Olof, ora entrambi vecchi e malati, che vivono soli in due casette vicine, non si incontrano e non si parlano mai, ma si spiano a vicenda, l'uno in attesa della morte dell'altro. Un'oscura scrittrice (non conosceremo mai il suo nome), impegnata in un malpagato giro di conferenze sulla vita dei santi, si trova a pernottare presso Hadar e, bloccata dalla neve, resta nella sua casa, e visita la casa di Olof, diventando l'infermiera e la confidente dei due, scoprendone i segreti e acquistando ella stessa una sempre più adamantina personalità: la paradossale e quasi selvatica indipendenza - quella pietà non sentimentale e forse scostante - che (come insegna la vita dei santi) ci si conquista solo nel servire gli altri.
Nella vita dei due fratelli c'è stata Minna, una donna albina, e un ragazzo, figlio forse di Hadar, forse di Olaf: sembra che tutto sia già passato, ma molte cose devono ancora succedere. Sulla trama preferirei non dire altro: Miele è un libro che non si lascia smettere, e benché la sua profondità psicologica e la sua risonanza mitica siano straordinarie, vanno rispettati anche il puro piacere e - in certe pagine molto forti, ma mai gratuite - l'estremo disgusto del racconto. Diciamo invece del feroce senso dell'umorismo di cui sembra dotato soprattutto Hadar, in lucido ma affabile colloquio col cancro che lo sta consumando ("Da una parte il dolore lo sfiancava a tal punto che avrebbe volto dormire in eterno, dall'altra lo teneva sveglio. I primi tempi da morto avrebbe solo riposato, poi si sarebbe visto"). E di certi improvvisi squarci di vertiginosa delicatezza, sempre in bilico sull'abisso grottesco (come quando la scrittrice recupera la bambola di legno con cui Hadar dormiva da bambino).
E mi si permetta di citare da quella pagina di insostenibile tensione narrativa e gnoseologica, quando il ragazzo resta intrappolato sotto un lago ghiacciato e, "ferendosi le nocche e la nuca e la schiena contro la crosta di ghiaccio, ruvida e tagliente sul lato inferiore, aveva cercato di ritrovare la strada verso il buco"; "Per tutto il tempo, per tutto quell'interminabile minuto, aveva ripensato alla sua vita di quindicenne. Aveva pensato a Minna. E si era sforzato di pensare contemporaneamente a loro due, Hadar e Olof, nella sua disperazione aveva voluto combinarli in un unico essere da poter invocare o al quale indirizzare almeno un unico pensiero. Ma era stato impossibile. Per quanto si torturasse la mente, non era riuscito a congiungerli, Hadar era rimasto Hadar e Olof, Olof. E alla fine si era arreso, aveva rigettato l'uno e mantenuto l'altro nei suoi pensieri, e nello stesso istante in cui lo faceva aveva ritrovato il buco nel ghiaccio e aveva tirato fuori la testa e ricominciato a respirare (...) Hadar era uscito così profondamente sfinito dall'aver udito questo racconto, che non gli era rimasta più la forza di domandare chi avesse rigettato e chi avesse mantenuto".
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