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Si legge con sgomento l'inchiesta di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti. Ci si chiede come sia possibile che una simile vicenda abbia potuto andare avanti tra silenzi, occultamenti, depistaggi, malgrado fioccassero casi di persone che si ammalavano, le diagnosi di tumore nel personale esposto, le morti. E anche malgrado che, per anni, si fossero accumulate lettere di denunce e segnalazioni. Il "laboratorio dei veleni" che tanto evoca la "fabbrica dei veleni", cioè le vicissitudini del polo petrolchimico di Porto Marghera, continuò a funzionare, malgrado tutto, per la più atroce delle motivazioni: "...che non bisognava in alcun modo ledere il buon nome dell'Università di Catania". Una motivazione agghiacciante, perchè - nel frattempo - la gente si ammalava e moriva, mentre altri - a fronte del rischio - chiedevano insistentemente di essere trasferiti in luoghi di lavoro più salubri. E' anche una storia sull'arroganza del potere accademico e sul fatto che, a meno che non vi siano fatti eclatanti ed inconfutabili, i deboli sono costretti a patire e soccombere, mentre chi occupa una posizione di forza (che certamente non viene da doti personali, ma da altre concomitanze, cone quelle che portano alcuni a far carriera in un sistema di rapporti di potere) riesce a mantenersi a galla e la fa franca. In questa triste storia, ancora più stupefacente perchè si è sviluppata per anni quando già esistevano tutte le norme per la sicurezza e la gestione del rischio ambientale nei luoghi di lavori, ebbe alla fine un ruolo decisivo il "testamento" di Emanuele Patané, il giovane ricercatore catanese presso il Dipartimento di Farmacia dell'Università di Catania e assegnato proprio a quel micidiale laboratorio. Questa memoria, che evidenziava tutte le disfunzioni del laboratorio dei veleni, giunse ad un avvocato battagliero nel corso di un procedimento penale avviato a causa delle numerose denunce che ormai non era più possibile ignorare ed ebbe un peso decisivo nel portare avanti, con buon esito, l'inchiesta giudiziaria.
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