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Critica della vittima. Un esperimento con l'etica
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Critica della vittima. Un esperimento con l'etica - Daniele Giglioli - copertina
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Critica della vittima. Un esperimento con l'etica

Descrizione


La vittima è l'eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un'azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato.
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Dettagli

2014
13 febbraio 2014
96 p., Brossura
9788874524822

Valutazioni e recensioni

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Luca
Recensioni: 2/5
MIccia corta.

L'opera parte in quarta, ma giunti al 60% inizia a perdere gas. Si sprecano le sillogi, le citazioni, gli esempi. le equiparazioni, in una critica debitrice della peggior scuola decostruzionista. Anche la satira non si salva sotto l'occhio analitico di Giglioli, uno di quegli intellettuali che non nota le cose, ma le "chiosa." Arrivati a quel punto ti sbarazzi del libro perché ti sei ritrovato punto e a capo in un esercizi intellettuale cartesiano; la mente che contempla le cose sotto di sé, affinché restino tali.

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Michele
Recensioni: 5/5

Ottimo, senza dubbio. Il libro si legge con facilità (a chi abbia un minimo di dimistichezza con la saggistica filosofica), e la brevità dell'opera è pienamente compensata dalla pregnanza degli argomenti portati. L'apparente "crudeltà" della critica (con che cuore si può criticare una vittima? Non è di per se stessa immune dall'essere criticata?) viene irreprensibilmente risolta dalla distinzione fra vittime-reali e vittime-ideali; una volta compresa questa, l'analisi di quell'ideologia vittimaria che respiriamo quotidianamente diventa perfettamente condivisibile.

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Voce della critica

 
 
 
È comodo essere vittime: è sempre colpa degli altri. Se perdi un concorso, è perché i commissari sono corrotti e i vincitori raccomandati; se perdi le elezioni, è perché il tuo programma è troppo avanzato e gli elettori non l’hanno capito; se sei parte di una minoranza, basta rivendicarlo e tutto ti è dovuto. “La vittima è l’eroe del nostro tempo” scrive Daniele Giglioli in apertura del suo libro, citando Lermontov e Monicelli insieme: cortocircuito paradossale, che trasforma il perdente in vincente grazie al potere del ricatto, psicologico e sociale, che deriva dalla sua posizione. Le radici dell’“ideologia vittimaria” oggi in voga non sono neppure troppo lontane, perché possono essere fatte risalire a una data precisa: il 26 giugno 1967, giorno in cui Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto e autore di La notte, in un discorso tenuto a New York trasformava la Shoah da fonte di vergogna a motivo di orgoglio; se l’oppressore è l’artefice del male, l’oppresso sarà il testimone del bene. A monte ci sono addirittura Rousseau e l’antieroe romantico, che ambivano al riscatto dell’escluso, dell’emarginato e dello sconfitto, ma è nel secondo Novecento che la macchina mitologica della vittima acquista un nuovo potere contrattuale: nel secondo Novecento “la vittima genera leadership”, al punto che molti potenti si atteggiano a tale, con autorevoli esempi nella recente politica italiana.
Giglioli spiega fin dall’inizio che si tratta di una situazione storica anziché di una condizione ontologica: proposto come secolo della violenza e del vuoto più che delle lotte per la libertà e della complicazione culturale, nella filosofia contemporanea il Novecento appare segnato dalla debolezza, dalla nudità e dalla mancanza. Tutti sono vittime allora: l’ebreo, il reduce di guerra, la rockstar morta per droga, Pier Paolo Pasolini, perché la violenza subita è maggiore di quella compiuta, anzi ne è la causa; ma soprattutto tutti destituiti dalle responsabilità, perché vittime della società o addirittura della storia. Così la reazione si giustifica in quanto necessaria: “O arabi” avrebbe detto Golda Meir, attribuzione probabilmente non vera, ma certo sintomatica, “noi vi potremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri”. La cosa vale naturalmente anche dalla parte opposta, visto che il termine che designa le persecuzioni subite dai palestinesi, Nakba, è in tutto simmetrico, ideologicamente e lessicalmente, a Shoah.
Il caso dei reduci, che si presentano come costretti a fare ciò che hanno fatto, e di Pasolini, che ha disseminato identificazioni cristologiche lungo tutta la sua opera, rivelano a loro volta, specularmente, due dei punti fondanti del dispositivo vittimario: deresponsabilizzazione da un lato e sacralizzazione dall’altro. Con lo sguardo rivolto agli studi di Mesnard, Apostolidès e Chaumont sulle vittime, nonché di Girard e Agamben su capro espiatorio e homo sacer, Giglioli decostruisce puntualmente la macchina mitologica da cui nasce l’ideologia vittimaria, mostrandone tanto le fondamenta storico-filosofiche quanto le ricadute nella propaganda mediatica e addirittura sull’immaginario collettivo. Perciò non ha paura di colpire icone, miti e santini dell’intoccabilità, soprattutto di sinistra, passando per Antonio Moresco, lo scrittore che ha conosciuto gran parte del suo successo grazie al meccanismo dell’escluso che è migliore degli altri (attraverso un diffuso sillogismo: evidenza del fatto, tu non mi pubblichi; premessa ideologica, l’editoria è corrotta; conseguenza inconfutabile: poiché non sono pubblicato sono un genio), e Adriano Sofri, che deve alla sua condizione di “condannato ingiustamente” un illimitato credito in certi ambienti (come denunciava qualche anno fa Rossana Rossanda in un memorabile articolo sul “Manifesto”). L’attacco più diretto è riservato però alle giornate della memoria, vera e propria moda politico-culturale dell’ultimo ventennio, che invita a celebrare piuttosto che capire, riducendo la storia a lezioncina morale e appiattendo il passato sull’attualità: “Non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo”, ammonisce Giglioli di fronte alla diffusa “tentazione”, sempre più frequente anche tra gli accademici, “di piegarsi a una storiografia da beccamorti, ossessivamente intenta ai cadaveri, ai corpi dilaniati, alle mummie, alle reliquie, come se non ci fosse più vita da raccontare”.
Il dispositivo vittimario del resto fa comodo non solo a chi sa sfruttarne la valenza a fini personali, ma anche a un potere più diffuso e meno individuale che (secondo il paradigma immunitario descritto da Esposito) immette nel corpo sociale piccole dosi di ciò che è considerato pericoloso, al fine di neutralizzarne, e persino contraddirne, le potenzialità espansive e lo sviluppo naturale. Funzione politica, insomma, da collocare sullo sfondo più ampio delle derive demagogiche della democrazia oggi, perché il “vittimismo dei potenti” contagia ed egemonizza “il risentimento dei subalterni”. Non ha paura Giglioli, dicevamo, di toccare il livello simbolico del discorso politico attuale, perché a lui non interessa schierarsi pro o contro, ma esercitare la critica, funzione indispensabile per capire e collocarci: criticare non significa né demolire né capovolgere, ma smontare i meccanismi, analizzare le sfumature e cambiare prospettiva. L’ultima parte del libro rompe lo schema di una dialettica duale (vittima e carnefice) perché invita a elaborare il trauma e fuoriuscire dall’ideologia. Come? Attraverso l’azione, appunto: definito il campo (lo sfondo storico-filosofico) e analizzata la sintomatologia (campioni ed effetti), lo spazio della proposta dovrà partire dal “sentirsi parte in causa, non rappresentanti di un’universalità spettrale quale è quella promessa dall’etica vittimaria”. Non sostituire mito a mito, prodotti inerziali e massificanti di dialettiche di potere, ma sviluppare la capacità di agire nel mondo: a meno che con mito non s’intenda quello originario, degli dei dell’Olimpo, quando il racconto serviva a scandagliare i limiti dell’umano e la relazione con il divino.
Se ad alcuni lettori potrà dispiacere l’eccesso di citazionismo, come se ogni frase avesse bisogno di conferma autorevole, e ad altri l’assenza di una decisa posizione antivittimaria, come se il libro avesse paura dell’ultimo scatto, sarà forse perché altri due miti sono ancora da sottoporre a critica metodica ed esperimenti etici: l’insicurezza e la sospensione. A chi confonde la critica con il “dire la propria” o con il “dare le pagelle”, e la ricerca con il copiare manoscritti e ribadire il già noto, tuttavia, il libro di Giglioli offrirà ipotesi metodologiche ancora purtroppo in gran parte trascurate: l’apertura al confronto, che non si appropria della parola altrui a fini propri, ma la include e la esibisce, definendo il contesto ed evitando l’isolamento; e lo spazio dell’interpretazione, che propone chiavi di lettura, ma fornisce anche gli strumenti per criticarle e andare oltre. Perciò il saggio è dedicato “alle vittime che non vogliono essere più tali”.
 
 
Stefano Jossa
 

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Conosci l'autore

Daniele Giglioli

Daniele Giglioli, docente di Letterature Comparate all’Università di Bergamo, collabora con Il Corriere della Sera. Ha pubblicato, tra l’altro, Tema (La nuova Italia, 2001), Il pedagogo e il libertino (Bergamo University Press, 2002), All’ordine del giorno è il terrore (Bompiani, 2007), Senza trauma (Quodlibet, 2011), Critica della vittima (Nottetempo 2014).

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