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Ci sarebbe almeno da ricopiarne integralmente due, e cioè "Mappe nere" e "La notte, la veranda". Ma sarebbe ingiusto e soprattutto facile verso quel minimo gesto di gratitudine che è doveroso tentare nelle nostre parole. Un libro funziona quando anche un solo rigo, aprendo su una pagina a caso, riesce pur in mezzo istante ad offrire agli occhi una cifra diversa di attenzione, qualcosa che può imbarcare insieme un sussulto o un ghigno nuovo, una curiosità a proseguire o una lieta scoperta, un'occhiata tenera o un'immediatezza gioiosa. Mi è successo esattamente questo con queste liriche fra le mani. La ricchezza delle parole, il divertente e profondo giro di immagini: "le nostre ombre, zattere di silenzio"; un sentire che si abbandona senza riserve: "la brezza volta una o due pagine, poi muore"; la stupenda sentenziosità di alcuni passaggi: "il mondo se l'è sempre cavata senza il tuo aiuto". Ci ha lasciati tre anni fa ma è qui con la sua voce preziosa a suonare sul nostro cuore malmesso l'eterna voglia di sperare, di amare ed essere amati, di riuscire a vivere. Quel semplice ormai perso di vista e come calpestato dai tombini del complesso, del banale sempre di moda. E invece è bello credere che la poesia scagioni dalla coralità di un male che serpeggia ormai indistinto, turpe, sdentato e ammiccante scarafaggio dalle nere mascelle. E' splendido poter leggere: "La cicatrice non può non ricordare la ferita,/come la ferita non può non ricordare il dolore". Ed è ancora più bello e inneggiante a salvezze meno illusorie leggere: "Se un uomo condanna pubblicamene la poesia/ le scarpe gli si riempiranno d'urina". Non serve altra persuasione. Ma insisto su quel comando iniziale: trovate quelle due liriche e leggetele, non esito a inserirle fra le cose più alte del secondo Novecento poetico. Leggetele più volte e se vi piacciono amatele, sono né più né meno che due testamenti di grandezza autentica. Sono il suo sguardo, le sue ali quaggiù, ancora libere e in volo.
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