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Anno edizione: 2010
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Antonio Pascale suscita, evidentemente, passioni contrastanti. Ciò dipende, credo, non tanto dalla postura del personaggio, quanto dalla qualità e dallo spessore della sua scrittura, che costringe a dubitare delle facili conclusioni e a ripartire da ogni acquisizione per evitare posizioni inerziali. La cifra stilistica dei suoi racconti-reportage – che a mio parere sono migliori rispetto alle prove di più distesa narrazione – è una ironia che si mette in scena come saggezza, ed è invece, in profondità, nervosa e mai sazia di sé. Vertici delle sue capacità di riflessione Pascale tocca quando riflette, con misura e distacco, su “che cosa può fare uno scrittore”, come suona il titolo di un libretto prezioso in cui un suo scritto sta in condominio con una straordinaria riflessione di Luca Rastello, ma senza affatto sfigurare. In questo libretto, che molto assomiglia a quello d’esordio sulla “città distratta”, ma dilata il periodo su cui si esercita la riflessione, dall’inizio degli anni ottanta alla prima decade del nuovo millennio, risulta perfetta per saggezza e acutezza – ma anche per un sotterraneo inquieto coinvolgimento - l’analisi della società italiana votata allegramente al baratro; e la volgarità degli apripista è descritta con una souplesse misurata. E’ bene tornare durante la lettura alla brevissima introduzione, con la riflessione su che cos’è un intellettuale di servizio: “un cittadino che ha voglia di trasformare un sentimento poco nobile come la rabbia in una metodologia conoscitiva"; e lo fa con una rara responsabilità stilistica.
bellissimo e imperdibile (così come altri saggi di Pascale: "scienza e sentimento" e "qui dobbiamo fare qualcosa"): uno spiraglio di illuminismo
libro che dal titolo promette molto (io son scappato dall'italia perché non mi trovavo) ma nei contenuti molto scarso. non riuscivo a leggere i capitoli interamente. Prolisso per quanto breve ma non accativante.
Recensioni
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"A che punto è la notte?" potrebbe essere l'interrogazione di sapore biblico con la quale compendiare il senso di questo nuovo libro di Antonio Pascale, prolifico autore d'origine casertana giunto ora alla sua decima opera, la seconda per minimum fax. In effetti, la notte di cui parla l'autore è quella che da almeno tre decenni avvolge con le sue tenebre "lunghe e inquiete" il nostro paese, senza che si profili il timido baluginare di un'alba prossima ventura. Un reportage su Trent'anni nell'Italia senza stile come enuncia il sottotitolo, ruvido quanto efficace, dove l'autore ci spiega, annodando fili eterogenei e disparati, lo stato delle cose. Una notte italiana, quella che ci mostra Pascale, attraversata dal trionfo incontrastato dell'industria cultural-pubblicitaria, dominata dall'imperativo categorico della spettacolarizzazione di circenses sempre più volgari e demenziali, asservita al dominio di un edonismo narcisista prono esclusivamente alla causa del mercato e del consumo. Un paese dove tranquillamente la cultura, l'intelligenza e la riflessione vengono additate tout court come disvalori tra l'indifferenza generale.
Così tutto ciò che dovrebbe tentare almeno di scalfire questo stato di cose (per esempio, assumere, come fa Pascale, il carico di un'intellettualità autentica, capace di esercitare un pensiero critico e problematico teso a rifiutare la logica della semplificazione e ad accogliere la sfida della complessità, senza abdicare all'esercizio dell'analisi e dell'osservazione, guardare e capire le cose grazie alla forza pura della ragione e della passione) è sistematicamente sostituito dalla grottesca sfilata di pseudo maîtres à penser che, invece di sgombrare le macerie di questo trentennio consolatorio e anestetico, puntellano allegramente le rovine. Ecco allora, in tragicomica successione, "l'intellettuale vip, il tuttologo moraleggiante, l'imbonitore spettacolare, il trasgressore programmatico" (così fotografava la situazione Ferroni in una recente intervista sul sito "ilsottoscritto"). Poi, per fortuna, si apre un testo come questo di Pascale e si legge, sin dalla primissima pagina, una fondamentale dichiarazione d'intenti: la rivendicazione di una scelta coraggiosa e umile, in netta controtendenza rispetto ai modelli ferroniani succitati, quella cioè di autoindividuarsi come un intellettuale al servizio, un soggetto pensante in grado di far luce nella notte, indicando e citando libri e articoli, ragionando su fatti ed eventi, sciorinando dati e situazioni. Basterebbe la nutrita, eterogenea bibliografia, posta dall'autore in esergo, dei libri e degli autori di cui si occupa in questa sua indagine colta e puntuale per avere una consistente guida ragionata alla comprensione e all'analisi di questi anni.
È una passione fredda quella che muove questo libro di Pascale: una freddezza che non significa però cinismo o disincanto o rinuncia, ma semmai una volontà di esperire un'idea, una teoria valida, facendosi largo in mezzo al ginepraio di un'informazione sempre più malmostosa e tendenziosa, che agisce sempre più come strumento di distrazione di massa, dirottando la sua attenzione su questioni del tutto vacue e irrilevanti. L'autore si muove invece come se fosse un detective dello spirito critico, un conradiano secret sharer agli ordini di un'intelligenza che non abdica alla tentazione del batticuore e dell'irrazionalità o della supina acquiescenza alle mode più mainstream, ai dispositivi del consenso di massa e del "così fan tutti". Per Pascale è infatti proprio l'emotività uno dei pericoli maggiori, quella che si frappone fra l'evento e la comprensione dello stesso: "Vista e considerata la situazione del nostro paese, dove è proprio il tasso di emotività, sempre così acceso, solenne e alato, che ci spinge a smettere di pensare (
) possiamo spingerci ad affermare che quel complesso di reazioni labili e veloci che i primatologi chiamano 'emozioni' può abbassare la nostra comprensione del dolore del mondo o perlomeno renderla parziale?". Si capisce facilmente anche da questa citazione che l'autore, da buon investigatore alla ricerca del senso perduto, ricorre volentieri a una sorta di modularità espressiva che viene continuamente reiterata alla stregua di un rivelatore tic sintattico-verbale: procedere per interrogazioni assillanti e incalzanti, sempre supportate da una mole di fatti e questioni.
Pascale ci spiega che quello della pursuit of happiness a tutti i costi è solo un equivoco e che a essa va sostituito piuttosto il "diritto all'inquietudine": "Se non possiamo essere per forza felici, dobbiamo accontentarci di essere intelligenti, e dunque indagare, indagare, indagare". Ma, volendo rinvenire un difetto in questo libro non banale, si può dire che talvolta l'autore pare sopraffatto da una specie di empito didascalico, di furor pedagogicus che non corrobora sempre la potenza del ragionamento e della analisi. Comunque, un libro che resta un'opera necessaria e importante.
Linnio Accorroni
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