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Nel 1587 l'Accademia fiorentina chiamò un promettente matematico ventitreenne, Galileo Galilei, a dirimere un'annosa questione riguardante la geografia e la geometria dell'inferno dantesco. Ne venne fuori un lavoro rigorosissimo, in cui Galileo, mettendo in campo un ricco apparato fisico-matematico, determinava con precisione la figura, la grandezza e la collocazione degli inferi. L'importanza di questo saggio giovanile non va sottovalutata: testimonia l'ottima conoscenza che Galileo aveva dei trattati di Archimede e introduce una serie di argomenti fisici sulla resistenza dei materiali e sulle leggi di scala che verranno ripresi, corretti e ampliati molti anni dopo nei Discorsi intorno a due nuove scienze. Ma può uno studio incentrato su un oggetto immaginario, a cavallo tra poesia e teologia, considerarsi "scientifico"? Un'opera del genere, al giorno d'oggi, varrebbe sicuramente al suo autore uno di quei premi IgNobel che incoronano ogni anno le ricerche scientifiche più bizzarre e improbabili. Ma l'intento di Galileo era dei più seri: voleva dimostrare che la matematica, oltre che essere un pratico ed efficace strumento di calcolo, poteva anche fornire un importante contributo ai dibattiti intellettuali più sofisticati della sua epoca. Gli insegnamenti che da questa vicenda galileiana trae Lévy-Leblond, e che rappresentano i motivi conduttori del suo interessantissimo saggio, sono due: la scienza ha avuto fin dal suo apparire una vocazione culturale a tutto tondo, che ha oggi in certa misura smarrito e che va recuperata; la linea di demarcazione tra scienza e non scienza è molto più sfumata di quanto comunemente si pensi, e di quanto suggeriscano certe analisi semplicistiche.
Fisico teorico ed epistemologo sperimentale, come ama definirsi, Jean-Marc Lévy-Leblond è uno dei più acuti intellettuali scientifici francesi, impegnato da anni in una battaglia per sottrarre la scienza a un ambito di ristretto specialismo e (re)integrarla a pieno titolo nella cultura condivisa. La velocità dell'ombra si inscrive in questo programma e costituisce un contributo alla costruzione di una "critica della scienza", intesa, à la Foucault, come esplorazione dei limiti e dei confini dell'universo scientifico. "Ciò che della scienza conosciamo di meno sostiene, in maniera solo a prima vista paradossale, Lévy-Leblond è proprio la scienza stessa". Questa ci appare spesso, in conseguenza di cattive pratiche educative e divulgative, come un territorio compatto e unitario del sapere e dell'agire umano, mentre è invece più assimilabile a una struttura frattale, dai contorni frastagliati e mobili. Per comprendere davvero la scienza occorre guardare non solo al suo centro, al suo nucleo conoscitivo e metodologico consolidato, ma anche alle sue periferie, a quelle regioni di frontiera in cui essa si affaccia sul mondo non scientifico (rappresentato, di volta in volta, dal senso comune, dai saperi tradizionali, dai sistemi di credenze, dal linguaggio ordinario, dall'arte, dal mito), lo condiziona e ne è condizionata.
Il titolo del libro fa riferimento a un curioso paradosso della relatività, per il quale un'ombra può avere una velocità superiore a quella della luce (dal momento che, a differenza di un segnale luminoso, non trasporta informazione), ma ha anche un significato simbolico: l'ombra che avanza indica il fallimento dell'idea che il progresso tecnico-scientifico tenda ineluttabilmente a dissipare le tenebre dell'irrazionalismo e dell'ignoranza. Di fronte a una visione troppo ambiziosa della scienza, che non può che tradursi in profonde delusioni, Lévy-Leblond suggerisce di assumere un atteggiamento più modesto e più sicuro, che rivendichi il piacere di scoprire e di sapere: "Siccome non possiamo pretendere che la conoscenza soddisfi i nostri bisogni scrive, evocando d'Alembert, rallegriamoci del fatto che possa rispondere ai nostri desideri".
Quello tra luci e ombre, tra oscurantismo e accecamento, è il primo dei confini della scienza che Lévy-Leblond percorre, oscillando con insistenza talvolta eccessiva tra discorso letterale e discorso figurato, e tessendo una trama di riferimenti culturali in cui trovano posto i temi più disparati, dalle antiche idee sull'arcobaleno alle grammatiche della natura, dal folklore einsteiniano alle tradizioni scientifiche orientali. Capitolo dopo capitolo, viene messa in discussione la concezione unidimensionale della scienza come forma culturale omogenea, esatta, cumulativa, e al suo posto emerge un'immagine più sfaccettata e realistica, che rivela la coesistenza di elementi apparentemente contraddittori: metodologie rigorose e suggestioni extrascientifiche, conoscenze universali e loro forme particolari di integrazione nelle diverse culture, precisione terminologica e ambiguità metaforica. Ma se è ingiustificata l'affermazione della validità assoluta e intrinseca del sapere scientifico, altrettanto inadeguata avverte Lévy-Leblond è la posizione opposta, quella del relativismo radicale, che riduce la scienza a mero prodotto di circostanze sociali: prendere atto della complessità della scienza non significa infatti svalutarne la portata e negarne la solidità e l'efficacia. Soprattutto, ciò che non va dimenticato è che la scienza, "sebbene non fornisca facilmente delle conoscenze effettive e immediatamente integrabili nella prassi comune, alimenta comunque il discorso generale". Ed è proprio questa sua importantissima funzione sociale e intellettuale che Lévy-Leblond ci invita a riconoscere e coltivare. Vincenzo Barone
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