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Anno edizione: 2018
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E' un libro che chiunque dovrebbe leggere,, in questo momento storico in cui l'alternanza tra favorire l'integrazione razziale e l'esplosione del razzismo è sempre più sottile e pericoloso. una prosa dura ma estremamente efficace e soprattutto vera. da non perdere
Recensioni
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TRA ME E IL SOGNO
La lettera di un padre a un figlio racconta il sogno dei bianchi e la vita reale dei neri d’America. Un libro duro, importante e acclamatissimo.
Nel volgere di pochi anni Ta-Nehisi Coates si è fatto conoscere come blogger, giornalista, infine celebrato autore con un primo e soprattutto con questo secondo libro che gli è valso premi prestigiosi, copertine di riviste e giudizi osannanti. “Tra me e il mondo” fa tornare in mente un pamphlet simile (e di simile successo) ma infinitamente meno bello come “Il razzismo spiegato a mia figlia” di Tahar Ben Jelloun, del 1998. Simile perché Ben Jelloun, come Coates si rivolge al figlio per spiegare cos’è il razzismo, infinitamente inferiore perché lo scrittore afroamericano, a differenza di quello franco-marocchino, non inscena un dialogo paternalistico. Niente lezioncine e buoni valori, al contrario: pur rivolgendosi al figlio adolescente, Coates lo tratta come un “fratello” affamato di visioni del mondo concrete e complesse, anche se decisamente amare. Se “Tra me e il mondo” è un libro importante, è perché fa a pezzi l’ottimismo americano chiudendo a qualsiasi prospettiva consolatoria. Il discorso radicale di Coates nasce dall’esperienza e come un racconto di formazione: dall’infanzia a Baltimora fino a New York, passando per la Howard University di Washington, “la Mecca” come la chiama Coates, il fulcro accademico del pensiero nero, il luogo dove il futuro scrittore entra in contatto con lo studio come strumento politico. “Tra me e il mondo” è un libro di libri, un’autobiografia sentimentale e intellettuale dove il lettore incontrerà una folla di autori, attivisti, studiosi postcoloniali. Studiando, Coates scandaglia e impara a decostruire i miti bianchi e neri, interpreta la razza come un artificio ideologico, riconosce disomogenea la costellazione nera e tragicamente compatto il “Sogno” di “quelli che si credono bianchi”. Il Sogno legittima la depredazione del corpo nero, la violenza e la segregazione come elementi strutturali della società (non solo) americana, l’impunità delle forze dell’ordine, le riscritture tendenziose del passato, il Sogno soprattutto giustifica l’oblio del male (“L’oblio è una delle componenti necessarie del Sogno.”). Colpisce il tono vibrante, a tratti solenne, di Coates, colpisce perché la sua prosa è efficace, è lo stile narrativo di uno scrittore che conosce bene gli strumenti del pathos e il potere ipnotico di un buon giro di frase. Il valore aggiunto della letteratura ha probabilmente determinato l’enorme impatto comunicativo di questo breve libro. É tuttavia difficile eludere il pessimismo dello scrittore, la durezza del suo disincanto e ciò che significa per “chi si crede bianco”: la lotta degli ultimi, dei neri, dei marginali, è fondamentale ma “i Sognatori dovranno imparare a combattere da soli, capire che il campo di battaglia per il loro Sogno è il letto di morte di tutti noi”, e questo difficilmente accadrà poiché il Sogno è troppo radicato e prevede un sistema di privilegi che non sembrano negoziabili. Il Time, che ha inserito Coates tra le sue “100 most influential people”, lo ha fatto (leggo in un’intervista all’autore) dopo averlo allontanato dalla testata. Mentre unanimi giudizi superlativi fioriscono sopra le righe, le uniche timide critiche sono quelle di chi (come David Brooks sul New York Times) mal digerisce la demolizione sistematica dell’american dream. Credo sia parte della domanda che solleva questo libro, chiedersi che rapporto esiste tra il pessimismo tragico e vitalista che lo sostiene e la velocità con cui è stato innalzato l’altare della sua gloria; se quei giudizi incensanti e quelle copertine non sono parte del Sogno, visto che i Sognatori “sono ossessionati dalla logica del chiamarsi fuori”.
Scritta in forma di lettera al figlio adolescente, Tra me e il mondo è l’assunzione di responsabilità da parte di un padre che rifiuta di edulcorare la realtà della precarietà del corpo nero, ma allo stesso tempo vuole offrire al figlio strumenti per comprendere e lottare contro lo spossessamento di sé. Davanti alla sua disperazione per l’assoluzione di Darren Wilson, il poliziotto che ha ucciso Michael Brown a Ferguson nel 2014, Coates non offre parole di speranza nel futuro o la consolazione del passato glorioso delle lotte degli anni sessanta, ma un vademecum alla sopravvivenza in un paese che «si è esercitato fin dall’infanzia alla depredazione della vita dei neri». Lo fa raccontando al figlio come la scoperta della vulnerabilità del corpo nero ha inciso sulla sua identità di maschio afroamericano, ricapitolando le fasi che lo hanno portato, come altri uomini della sua generazione, dalla percezione della blackness come prigione, alla glorificazione afrocentrica del corpo nero, alla consapevolezza che la pelle nera non è in sé un segno identitario trasparente: «Non c’era niente di sacro o di particolare nella mia pelle; ero nero a causa della storia e della mia eredità».
Coates racconta dell’infanzia nel ghetto nero di Baltimora, dove ha imparato i codici di comportamento per mantenersi vivo, e di come la perdita del controllo sul corpo generi paura e violenza. Ricorda la disillusione nei confronti della scuola, la fascinazione per l’opposizione dura delle Black Panthers, di Malcolm X e del nazionalismo nero. Racconta il graduale passaggio dall’essenzialismo a una nozione politica, storica e culturale dell’identità nera(…). E quindi la realizzazione che l’apparente omogeneità del mondo nero è in realtà attraversata da variabili – di genere, classe, preferenza sessuale, generazione – che interagiscono con l’esperienza vissuta del corpo nero. (…).
La storia di Prince Jones, brillante studente di Howard ucciso da un poliziotto nel 2000, incarna l’estrema vulnerabilità del corpo nero: non basta essere belli, eleganti, intelligenti, «a posto» per proteggere la propria esistenza, a morire per mano di poliziotti vittime del Sogno non sono soltanto i neri del ghetto. Ma è anche la fonte inaspettata di una visione meno disperata, nella figura della madre di Prince che l’autore incontra nella parte finale del testo, che si conclude con l’esortazione al figlio a lottare.
Recensione di Anna Scacchi
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