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Anno edizione: 2024
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Versi che interrogano il lettore (emozionandolo, anche), questi di Italo Testa: già dal titolo, che non allude come ci si aspetterebbe a una "condivisione" della gioia (tra l'autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua "divisione": quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz'altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l'ambientazione dei suoi versi. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d'amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale ma non scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de "L'Airone" trovano un'empatica rispondenza in questi versi); ma anche Celati, Tonino Guerra, e altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia. E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Un libro da leggere e rileggere, di cui forse si è parlato troppo poco.
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