Nel filone oggi piuttosto florido del romanzo storico-antico si inserisce Il campo dell'onore, opera prima assai apprezzabile dello scrittore torinese Nello Gatta. Azzeccata è anzitutto l'ambientazione, i tempi di Domiziano, che la storiografia romana ha tramandato come una delle numerose dark ages dell'impero. La vicenda è, topos frequente nel genere, narrata retrospettivamente in prima persona da Tiberio Claudio Massimo, recluta ma farà rapidamente carriera assai colta e, naturalmente, destinata ad alte imprese. L'impianto generale segue i cliché del genere: la vicenda si configura come romanzo di formazione, e la ricostruzione storica si intreccia con tratti leggendari e fiabeschi; dai tempi di Waltari è però passata parecchia acqua sotto i ponti, e Gatta mostra di sentire le nuove fascinazioni del fantasy, espresse soprattutto nel tema dell'animale guida di Tiberio: il lupo, animale totemico della romanità. Il romanzo, facilmente sceneggiabile, mostra di avere ben assorbito le ultime tendenze del cinema neo-peplum: la frase di Tiberio Massimo "lì è mio figlio di cui nemmeno ho potuto cremare il corpo. Appare sempre nei miei sogni" non può non ricordare l'analoga battuta di un altro Massimo, il gladiatore del film di Ridley Scott. Rispetto a prodotti consimili, si nota, da parte dell'autore, docente di greco e latino al liceo, una competenza non costruita semplicemente ad hoc, ma maturata negli anni e unita a vera passione per l'antichistica. La documentazione è curata nei particolari e non dà quell'impressione di scenario di cartapesta che spesso si avverte nel leggere un romanzo storico contemporaneo. L'assenza di fastidiosi anacronismi o forzature culturali permette anche al lettore colto l'abbandono alla sospensione dell'incredulità. La scrittura rende bene la Romanitas dei personaggi: è felice, ad esempio, l'uso del vocativo latino domine (quasi un Sir inglese),con cui i personaggi si rivolgono la parola, e spesso i motti pronunciati dai personaggi sono facilmente retrovertibili in latino. Talvolta Gatta finisce, forse per deformazione professionale, per esagerare con la documentazione. Per esempio, le citazioni degli autori antichi tendono a essere troppo scoperte: a p. 54 il protagonista, prima di citare un verso di Virgilio, premette, appunto, "a mezza voce citai un verso di Virgilio", e così accade anche in altri casi per cui si arriva al limite della nota a piè di pagina. E se può essere interessante il glossario finale dell'equivalenza dei toponimi antichi con quelli moderni, l'indice dei passi citati dai personaggi è uno scrupolo eccessivo: immaginiamo le dimensioni ciclopiche che avrebbe un'appendice del genere a Il nome della rosa!I testi chiamano da sempre altri testi, e spetta al lettore sapere, o volere, riconoscere le allusioni; altrimenti, che si accontenti della trama, che è già di per sé avvincente. Insomma, non so se queste siano scelte dell'autore, dell'editor o dell'editore, ma farne a meno nelle prossime puntate della vicenda a mio parere renderebbe ancora più piacevole una scrittura che è senz'altro superiore alla media della produzione corrente. Già, perché, pur non potendo qui rivelare il finale, caveat lector che, essendo concepito come primo episodio di una saga, il libro termina con l'oggi dilagante tecnica del cliffhanger. Viene voglia di leggere il prossimo volume? Direi di sì. Massimo Manca
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