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"Non ha mai pensato di andarsene da qui?", chiede Sergio, single, grasso, brutto, perennemente ubriaco, cassaintegrato, sgombra-cantine in nero. La signora Merlini fa una pausa ironica, un unico sorriso sveglio e disilluso, cosciente: "E con quali soldi?". Poi con espressione bianca e nera, i tratti segnati, i connotati semplici ma efficaci, precisa: "No, è una guerra la mia. Rimanere qui è come la storia dell'eroico scarafaggio che si rifiuta di farsi cacciare dal cesso". La città alla fine del mondo è uno scempio di edifici squallidi affastellati uno sull'altro. L'umanità della fine del mondo non ha quasi alcun risvolto positivo. Questo fumetto è l'incubo perenne di tutte le nostre notti: sappiamo che stiamo andando a finire nel cesso, l'individualismo senza rimedio sottace una consapevolezza triste e spesso ripugnante. La città alla fine del mondo è una guerra per i più tenaci, per un'anziana scrittrice dal successo svanito, lucidamente beffarda e intelligentemente maleducata, mentre per tutti gli altri scarafaggi è una vita nella fogna senza possibilità di riscatto, senza ambizioni di riscatto. La fine del mondo non è quella che viene raccontata balloon dopo balloon; la fine del mondo è quella che noi scongiuriamo e immaginiamo leggendo di queste figure e riconoscendole tutte nel nostro mondo reale. Tale affastellamento di negatività non è una cinica narrazione cieca, anzi, è presa di coscienza senza sconti, è nitida lettura. Certamente Francesca Ghermandi non ha timore di esplicitare l'incubo di un futuro scarno di speranze. Un futuro che è già presente, nel momento stesso in cui tutti i suoi personaggi sono esistiti, esistono ed esisteranno. Ecco lo stereotipo ragionato del peggiore dei mondi possibile, dove topi e insetti neri sono gli unici animali da compagnia e gatti pigri si divertono con topi già ridotti a carogna, anziché inseguirli da vivi. Nel caso immaginassimo, prima di aprire il volume, di trovarci di fronte a una cinica forma di critica sociale, ci sbaglieremmo. Le Cronache, con il loro sorriso strafottente e disincantato, non offrono una morale: sarà il singolo lettore ad affibbiarsi la sua, propria e personale lezione; saremo noi stessi a non fare sconti alla realtà, dopo aver letto le storie di questi, tanti personaggi e delle loro diverse vite, tutte arrotolate all'albero secolare (e già morto) in punta alla collina.
Michela Del Savio
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