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La lettura di questo romanzo - pubblicato nella Ddr nel 1976 e tradotto in Italia sono nel 1992 - mi ha condotto nella Germania nazista, dando un volto al cosiddetto alltäglicher Faschismus, il fascismo quotidiano, e alle sue principali manifestazioni grazie alle indicazioni di chi, come la protagonista, Nelly, ne ha osservato, da spettatrice, le evoluzioni e le involuzioni. Christa Wolf ha riscoperto con coraggio le proprie radici, ricordando a se stessa e agli altri che anche i cittadini tedesco-orientali hanno avuto un passato all'ombra della croce uncinata; ha messo a nudo tutta la pulsione tedesca alla subordinazione che ha permesso di essere spettatori in quegli anni di ogni orrore e, contemporaneamente, di non vederlo; contro l’estetica ufficiale vigente nella Ddr degli anni Settanta di un passato ormai superato, ha fatto affiorare un presente socialista sotto il controllo di burocrati e di censori e ha auspicato una nuova lingua liberata dall’autocensura e dalla lotta tra il non detto e i limiti del dicibile. Pochissime pagine come queste raccontano il nazismo da chi, come Christa Wolf, ne ha respirato il veleno.
Recensioni
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recensione di Rossanda, R., L'Indice 1992, n. 4
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
Un curioso avvertimento si trova in testa a "Trama d'infanzia" di Christa Wolf, che esce adesso in Italia: "Tutti i personaggi di questo libro sono invenzioni della narratrice... altrettanto poco gli episodi descritti coincidono con fatti realmente accaduti". Somiglierebbe all'avviso che precede i film a scanso di noie legali, se non terminasse con l'osservazione che, se qualcuno riconoscerà nei personaggi se stesso o altri, "farebbe bene a riflettere sulla singolare mancanza di originalità che il comportamento di molti nostri contemporanei presenta" e se questa non vada "attribuita alla situazione in cui viviamo". Nulla insomma in "Trama d'infanzia" fuorché l'essenziale.
È la storia della formazione di una donna dagli anni trenta al primo dopoguerra, rivisitata in un breve ritorno alla cittadina di nascita al confine orientale della Germania, molti anni dopo, nel 1972: "Kindheitsmuster" esce nel 1976.
La bambina e poi giovane donna è molto simile a Christa Wolf, forse è quel che ormai ritrova di una se stessa che, nata nel 1929, ha dieci anni quando scoppia la guerra, sedici quando finisce - nel tempestoso spostamento di popolazioni e confini sotto gli eserciti di occupazione americano, poi inglese e poi russo - e poco più di quaranta quando torna, per meno di due giorni, nella città natale ridiventata polacca. Un ritorno che rimette in moto il passato e interroga la memoria.
Che cosa ricordiamo dell'infanzia? Il passato è altro da noi, non tanto "passato" o "morto" quanto "estraneo", da riesaminare come se fosse un altro, o di un altro. Christa Wolf, che è l'io narrante, guarda dunque dall'esterno e in terza persona la bambina e poi ragazza di Landsberg nella Ddr Warthe, che chiama Nelly, mentre si ritrova nel duplice tempo della visita oltre frontiera e della scrittura. Questo avviene, del resto, nel ripensarci: una parte di noi si è staccata e si fissa, quasi deprivata di risonanza emotiva, mentre nei tempi più vicini ci percepiamo ancora legati dal cordone ombelicale con quel che siamo adesso, quando essere e pensarsi confondono. E più frastornante è lo scenario che ci circonda, non ancora ordinato nella memoria collettiva, bombardato da quel che sta avvenendo, le domande ancora grezze e le priorità non ancora selezionate del tempo. Di questo narrare Christa Wolf è maestra, e le ha dato dei fastidi nella Ddr, quando ancora nel 1959 il partito andava predicando che occorreva ispirarsi alla cultura e alle forme di espressione degli operai e dei contadini, quelle del "realismo". Ma chi conosce e ha amato "Riflessioni su Christa T.", che viene prima di "Trama d'infanzia" (1968) e "Cassandra", che viene dopo (1983), riconoscerà in "Trama d'infanzia" quel suo ritmo, che via via si depura nella libertà della fiction. E forse rileggerà "Cassandra" come "quel che resta" della "Kindheitsmuster", forma pura della perdita di sé in una guerra altrui.
Se fra noi e quel che siamo stati c'è il lavoro non innocente della memoria, con le sue evidenze e i suoi oblii, quel che ricordiamo pone domande inquietanti non soltanto sul come e perché ricordiamo quello e non altro, ma come, a suo tempo, abbiamo realmente sperimentato quel che oggi è ricordo: attraverso quali filtri e schermi si vive nell'immediato correre dei giorni. Specie un bambino o una bambina, ai quali molto è nascosto dagli adulti, sia per proteggerli sia per non doverlo dire fino in fondo a se stessi. Così Nelly, il nome che Christa Wolf dà alla bambina d'un tempo, cresce negli anni trenta e i primi quaranta facendosi faticosamente strada, con la diffidenza dei piccoli verso i grandi, in un mondo dove quel che è detto forse è non vero, e nel non detto sta forse un vero irraggiungibile. E apparizioni e scomparse, spostamenti e pene appaiono ugualmente inspiegati e perciò anche privi dell'orrore che il ricordo, più sapiente, gli attribuirà: la prima e seconda infanzia, poi l'adolescenza, sono ricostruite come una trama nella quale i disegni del tessuto furono diversamente percepiti da come erano o appaiono oggi; eppure sono stati la "verità" dell'esperienza infantile, così fitta di disagi quando sfiora il mondo delle relazioni adulte.Il crescere della bambina, nella naturale solitudine dell'io che si forma, accanto alle misteriose trame del mondo fra gli anni trenta e quaranta, è quel che la memoria rimanda a Christa Wolf: il viaggio nel passato non le rimanda paesaggi e incantamenti di fronte alla natura, forme o colori, ma parole, persone, eventi; come se non la abitassero che le relazioni nelle quali si esplica il vivere concreto, col suo fare e con chi e come e nel rifrangersi pieno di dubbi sulla scena interiore. Quel che a Nelly, ma anche più tardi alla donna che ritorna a Landsberg, resta negli occhi connota sempre un vivente, il camice "bianco" della madre che lavora tutto il giorno nel negozio, l'abito "nero" della cresima, i luoghi freddi o piccoli o comunque rapportati all'abitarvi. Anche la vegetazione che invade il cimitero abbandonato del paese natale, spezzandone le pietre e le lapidi, è una metafora del tempo interrotto, rendendo il "prima" confuso, quasi invisibile. Chissà se Christa Wolf possiede in sé paesaggi gratuiti; certo non ha tempo di ricordarli, pressata com'è nella matassa dei rapporti e dei significati. Ne viene una scrittura instancabile, come di giorni nei quali è impossibile staccare la spina, pena un buio ancora più buio.
Se infatti Nelly è al buio come tutti i bambini, risparmiati da mezze verità e inganni, questa sua infanzia è una singolare parafrasi della condizione della gente tedesca sotto Adolf Hitler: anch'essi erano al buio, dicono di essere stati al buio, sono vissuti come se fossero al buio. Dicono. Ma fin dove è vero? che cosa sapevano, che tipo di bambini circondati dal non detto erano i grandi, i suoi, la madre, i nonni? Nelly sente per la prima volta a sedici o diciassette anni la parola "nazi" da un ufficiale britannico delle truppe d'occupazione, che pronuncia "nesi". "Ma dove avete vissuto?" aveva chiesto ai suoi un deportato nutrito per una sera, senza collera, e poi non aveva più fatto parola, s'era alzato e se n'era andato. E sua madre, a chi le dice "È Hitler che dovete ringraziare se siete ridotti così", replica "Mi permetterà di non sputare su un morto", non perché lo voglia difendere, ma per il principio che non si sputa sui morti.
E tuttavia che cosa si doveva e poteva sapere? che cosa si è voluto o potuto non sapere? Anche la rivisitata Nelly rivela, dopo l'oscurità coatta dell'infanzia, un ritrarsi dal reale, per esempio, da quel che significa essere ebreo in quegli anni. Non è stata formata nell'antisemitismo, la movenza è inconscia, ma non se ne parla ed è meglio non approfondire: le pagine sul signor Lehmann sono crudeli, per lui e per Nelly, ugualmente vili. Nelly è crudele anche con le deportate ucraine, non per quel che fa, ma per quel che non rileva. I bambini sono crudeli come i gatti, per sopravvivenza. Neanche la Nelly diligente segretaria dopo l'occupazione si fa troppe domande: è vero che allora, come negli ultimi tempi della guerra, la fatica e il dolore e qualche orrore - Christa Wolf non gioca mai su nessun effetto - d'una retrovia quasi trincea occupano tutto lo spazio mentale. E tuttavia, essa si dice, possiamo non sapere ed essere coinvolti lo stesso nella responsabilità. La vita non funziona come un tribunale anglosassone. A cose avvenute, o irrimediabilmente avvenute, nella trama del passato appaiono i disegni che dovevano essere colti, e la percezione della colpa accompagna, senza risolversi, quella della pietà per la fatica di quel vivere cieco.
Questo trascorrere da quel che si è subito a quel che andava scelto è la sigla di "Trama d'infanzia", e anche il segreto della sua scrittura. Che è più risolta nel narrare, filtrato da questa inquietudine di Nelly e dei suoi che non quando le grandi date o eventi, la storia insomma, si fanno espliciti o le eco del presente o passato prossimo - come il Vietnam quando è in viaggio - entrano nella pagina. Per Christa Wolf il vincolo fra le cose del mondo e l'essere della persona, e viceversa, stanno nella trama, fanno parte del disegno e indicano impietosamente le possibili varianti che non si sono date. Pochi e poche raccontano in questo modo: o è stata la quotidianità di quegli anni, nel rombo d'una tragedia mondiale, a dare questo segno a ogni iniziazione? "Dovresti saper descrivere il mucchio di cadaveri mezzo mangiati dalla terra che escono dai lager", si fa dire; questo secolo avrebbe bisogno di questa scrittura. Può essere. Ma le domande dei vivi Christa Wolf le fa tutte, col loro carico di incertezza e inesorabilità.
Forse che "Cassandra" non è ancora, e più radicalmente, questo? Riflettendoci, vien voglia di azzardare una collocazione di "Trama d'infanzia" nella biografia intellettuale della Wolf: perché allora, fra il 1974 e il 1976, le preme dentro questa storia d'una "Bildung", d'un apprendimento alla vita, nel mezzo della tragedia tedesca dal nazionalsocialismo alla seconda guerra mondiale? In quegli anni e nella Ddr, essa è già stata risolta in una condanna storica: all'est molti, come all'ovest, si sentono più vittime che colpevoli, ma sanno di che si è trattato più che non lo confessi a se stessa la Repubblica federale. Quella che a metà degli anni settanta si interroga sul sapere e non sapere, l'essere o non essere coinvolti, è una Nelly che due anni dopo aver sentito la parola "nazi" e forse appena ha intravisto le fotografie raccapriccianti dei lager, si è iscritta alla Sed, il partito comunista della Germania est. Non solo, ma dal 1965 le domande che si è posta non su quel passato, ma sul presente della Germania sono tali da farla progressivamente escludere dalla dirigenza di quel partito che, giovanissima, le si erano dischiuse: arrivata alla soglia del Comitato centrale, ne era stata ricacciata. Del resto, dopo un tuffo nella pedagogia delle masse predicata nel 1959 - aveva lavorato per un certo tempo in fabbrica -, dal 1962 non faceva altro che scrivere: un anno dopo l'erezione del muro a Berlino. Nel 1968, le "Riflessioni su Christa T." ("Nachdenken über Christa T.") erano state aspramente criticate. E i carri russi avevano invaso Praga. Dal dopoguerra su cui si chiude "Trama d'infanzia" al viaggio a Landsberg del 1972 e poi la scrittura del libro, stanno quasi vent'anni, dei quali in "Trama d'infanzia" non si fa cenno, neanche indiretto.
Ma nei quali Christa Wolf aveva dovuto rivolgere al presente la domanda sul sapere e non sapere, essere coinvolti e non esserlo, subire e scegliere - in quale situazione, a quali prezzi. Certo non la sfiorava la previsione che meno di tre lustri dopo lo stato della Ddr e il suo regime sarebbe stato accusato di essere repressivo, come quello nazista dei suoi anni infantili, e che nel 1989 anche su di lei si sarebbe rovesciata una valanga di accuse - per non aver saputo, detto, denunciato. E se neanche ora, probabilmente, pensa che sia lecito comparare le due esperienze, certo la domanda sul che fare le doveva essere apparsa una ripetizione meno tragica ma non meno moralmente pressante di quella che avrebbero dovuto porsi gli adulti che facevano cornice all'apprendistato di Nelly alla vita. Forse esso stesso era una metafora del presente, e dal presente veniva l'irriconciliata domanda sul che cosa si sa, sul che cosa si deve, sulle responsabilità e le colpe.
"Questa sembra essere la fine - terminava "Trama d'infanzia" -... La bambina che stava acquattata dentro di me è uscita fuori? Oppure, spaventata, si è cercata un nascondiglio più profondo e inaccessibile? La memoria ha fatto il suo dovere? O si è prestata a dimostrare, col raggiro, che è possibile sfuggire al peccato capitale di quest'epoca: non voler conoscere se stessi? E il passato, che poteva ancora disporre di regole grammaticali e scindere la prima persona in una seconda o in una terza - la sua egemonia è spezzata? Si calmeranno le voci? Non so".
Non sa. E si propone di lasciarsi andare al sogno, tanto è "sicura di trovare al risveglio il mondo dei corpi solidi". È il 2 maggio 1975, trent'anni dopo la guerra, quando scrive queste righe. Un anno dopo sarà radiata dall'Unione scrittori. Cinque anni dopo, in Grecia, incontrerà Cassandra e inseguirà le radici del dolore preveduto, ma anche un sogno, la comunità delle donne dello Scamandro, "una sottile striscia di futuro dentro l'oscuro presente". Ma è fragile quel che crede di inserirsi da fuori della storia. Nel 1989 questa le sarebbe precipitata addosso in tutta la sua approssimativa violenza.
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