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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 1995
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Molto carino, nonostante la mole si legge che è una meraviglia.
Molto carino e scorrevole!
Che dire, bellissimo, finito un'ora fa. Il mio punteggio sarà alto, molto alto. E vi spiegheró perché: nonostante la lunghezza del romanzo, la ripetizione della sua umile condizione, delle sue riflessioni etc... Pamela ha saputo farmi entrare nel suo mondo, nel mondo del '700. Mi sono sentita una sua amica, alla quale raccontava tutto ( infatti ora mi sento un pó persa, visto che l'ho finito). Straordinaria storia d'amore, di altri tempi.. Colpi di scena al punto giusto! Romanzo semplice da capire... bellissimo. Non so se lo rileggeró, ma sarà sicuramente uno di quei racconti... che nella vita se riesci a leggere fino alla fine, ti rimarranno impressi nel cuore. Per chi conosce Elisa di Rivombrosa molto bene: ci sono eccome delle congruenze, lievi , ma ci sono. !!! Buona lettura :-)
Recensioni
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recensione di Sertoli, G., L'Indice 1998, n. 3
Ci voleva dunque Aldo Busi per convincere un editore italiano che non era un suicidio finanziario pubblicare tremilacinquecento pagine di Samuel Richardson, l'ultimo grande romanziere settecentesco assente negli ipertrofici cataloghi nostrani. Così, nel giro di un solo anno, abbiamo avuto sia una nuova traduzione di "Pamela" (la precedente risaliva al 1953) sia - soprattutto e finalmente - l'"impossibile" traduzione di quel "classico classico" "europeo" che fu, due secoli fa, "Clarissa" (la precedente risaliva al 1784-95). Dico "impossibile" perché avendo provato io stesso a proporla a diversi editori, me la son sempre sentita rifiutare più o meno con queste parole: "Oh sì certo, bisognerebbe farla, ma i costi, lei capisce...". Devo confessare che no, non capivo, perché a un profano nell'ardua scienza del marketing come il sottoscritto sembrava, al contrario, che l'editore che l'avesse "fatta" avrebbe scoraggiato chiunque dal "rifarla" per almeno un paio di generazioni, sicché avrebbe avuto tutto il tempo - se ci sapeva fare - di gestirsi al meglio il suo piccolo monopolio. Ingenuità mia o incompetenza dei troppo temuti uffici commerciali delle case editrici? Comunque sia, tanto di cappello a Frassinelli per aver osato l'inosabile. E tanto di cappello, naturalmente, anche a Masolino d'Amico, il traduttore maratoneta che, dopo aver reso in un bell'italiano scorrevole le seicentocinquanta pagine di "Pamela", ha proseguito d'un fiato per le quasi duemilanovecento di "Clarissa", senza perdere un colpo né lasciarsi prendere dalla disperazione ritirandosi prima del traguardo (e impiccandosi magari a un albero, come aveva pronosticato quel pessimista del Dottor Johnson).
In confronto, le cinquanta paginette di "Shamela" sono davvero un'inezia - e quindi si capisce che Daniela Fink abbia avuto tutto il tempo di limarsele ben bene, con gusto ed eleganza (vorrei dire) femminili. Cinquanta paginette, d'altro canto, che, almeno per il lettore inglese, sono diventate inseparabili dalle seicentocinquanta di "Pamela". Inseparabili perché complementari. I due romanzi sono infatti il rovescio l'uno dell'altro e le due protagoniste - come suggerisce Guido Fink nella sua ampia e acuta introduzione - sono "sorelle siamesi" che dobbiamo abituarci a vedere sempre insieme: una figura unica "rifless[a] da uno specchio a due luci, l'uno fin troppo compiacente, l'altro grossolanamente deformante". Pam e Sham: la cenerentola virtuosa ricompensata con la mano del principe azzurro, e il suo "doppio" vizioso e intrigante, trionfante su quel "cretino ben provvisto di denaro" che è il suo padrone e punita solo "in extremis" per ossequio alla regola della giustizia poetica (e questa è l'unica "défaillance" che mi sentirei di rimproverare a Fielding).
Ma procediamo con ordine. Quando "Pamela" uscì, nel novembre del 1740, Fielding si trovava in un momento critico della sua vita. Costretto ad abbandonare la carriera teatrale dal ripristino della censura preventiva sui testi (ripristino a cui egli stesso aveva non poco contribuito con le sue aggressive satire politiche), era in cerca di una nuova "provincia" in cui esercitare quella brillante e prolifica penna che aveva fatto di lui, se non il più grande "homme de théâtre "dopo Shakespeare (come lo avrebbe definito, esagerando, G.B. Shaw), certo l'autore più rappresentato sui palcoscenici londinesi del tempo.
Due anni dopo, nel 1742, "Joseph Andrews "avrebbe segnato l'avvio della sua - ancor più grande - carriera di romanziere. Ma "Joseph Andrews", che nei capitoli iniziali rifà il verso a "Pamela" mettendo in scena il fratello dell'eroina richardsoniana intento a difendere la propria castità dalle insidie di una non più giovanissima ma procace e vogliosa padrona (che è poi, guarda caso, la zia di Mr B.), non è altro che il seguito dell'operazione burlesca compiuta con "Shamela". La quale dunque, benché l'autore ne negasse sempre (inutilmente) la paternità, deve dirsi il vero esordio del Fielding narratore.
Un esordio, d'altra parte, che si riallaccia strettamente alla sua precedente esperienza teatrale. Non tanto - o non solo - per le ragioni illustrate da Guido Fink ("teatrino di marionette"), quanto perché "Shamela" nasce dallo stesso "progetto" e adotta la medesima strategia a cui si erano già ispirate alcune delle più riuscite - e spassose - "pièces" fieldinghiane: la parodia satirica di matrice scribleriana. Firmandosi "Scriblerus Secundus", Fielding si era presentato come l'erede e il continuatore della battaglia intrapresa da Pope, Swift e compagni contro "Grub Street", cioè contro il cattivo gusto e l'incultura degli scribacchini e pennivendoli "moderni".
Ora, quale maggior monumento d'incultura e cattivo anzi pessimo gusto (non solo letterario) che l'osannato romanzo di Richardson? Ecco dunque Fielding impugnare la penna e riscriverlo per rovesciarlo come un guanto. Riscriverlo: perché non c'è pagina di "Shamela" che non derivi da "Pamela": stessa tecnica (epistolare), stessi personaggi, stesse situazioni e scene - persino la medesima prefazione autoelogiativa (aggiunta da Richardson alla seconda edizione e purtroppo omessa nella traduzione italiana). Ma la riscrittura è un rovesciamento, perché la virtuosa servetta si trasforma in una "impudente sgualdrinella" avida e furba che proprio difendendo con le unghie e con i denti - e con tantissime lacrime, svenimenti, ecc. - l'inesistente "gioiello" della sua verginità riesce a incastrare quel "babbeo'' del suo padrone ("Booby" = "citrullo" ribattezza Fielding il Mr B. di Richardson) facendosi sposare e diventando così una gentildonna ricca e rispettata. "Shamela", insomma, è la "storia vera "di Pamela, laddove "Pamela" ne era la "storia falsa": un trucco, una finzione ("sham"), una bufala venduta alla stampa (commissionata dalla protagonista stessa a un pennivendolo!) per turlupinare il pubblico dei lettori, non meno babbei di suo marito.
Ma perché Fielding ce l'aveva tanto col romanzo di Richardson? Per tre motivi, principalmente. Anzitutto, non condivideva l'equazione virtù (femminile) = verginità. Non perché fosse di più larghe vedute in tema di sessualità (lo era, ma solo quando si trattava di sessualità "maschile"), bensì perché quell'equazione gli appariva una pericolosa "riduzione" della moralità a scapito di altri e più alti valori/doveri (per esempio la carità: in "Joseph" "Andrews" uno dei personaggi moralmente più positivi è una sguattera d'osteria non avara del proprio corpo ma caritatevole). Inoltre, ostentata com'è, reiterata in ogni pagina, sbattuta in faccia a parenti, colleghi di servizio e illustri sconosciuti, la "virtù" di Pamela ("morire piuttosto") suonava a Fielding sospetta: tradiva l'affettazione, se non addirittura l'ipocrisia. Tradiva cioè - e risvegliava nei lettori (nelle lettrici!) - una pruriginosità, un'equivoca "fissazione" sul sesso che Fielding non fu l'unico tra i contemporanei a percepire nel romanzo di Richardson. Egli non aveva bisogno della psicoanalisi per intuire che dietro la Pamela "manifesta'' c'era una Pamela "latente'': ed è questa "altra", svergognata ("shame "= vergogna) Pamela che mette in scena col nome di Shamela ("e lui mi ha baciato ancora, tutto ansimante (...) ma, "per sfortuna "è arrivata la Signora Jervis, e in pratica "mi ha rovinato la festa""). Ma tradiva anche, quell'affettazione (o ipocrisia), un calcolo opportunistico di piccola arrampicatrice sociale che vuole vendere al meglio la propria merce (autentica o contraffatta che sia) in un mercato dove la Virtù sta diventando l'articolo più richiesto.
Ed ecco allora il secondo motivo di ostilità. Fielding non poteva accettare le implicazioni di una vicenda il cui "happy ending "coincide con una "mésalliance". Facendo sposare a un gentiluomo la propria domestica - una domestica che afferma orgogliosamente che la sua "anima'' vale quanto quella "di una principessa" e, addirittura, che tutti gli uomini sono "alla pari in origine" -, Richardson aveva riproposto il caposaldo dell'ideologia borghese-puritana: la virtù, non il sangue (o il denaro), come unica vera forma di "grandezza" e, quindi, fondamento di legittimazione sociale. È la virtù che legittima Pamela a diventare una gentildonna, così come è la virtù che legittima Mr B., "dopo" la "conversione", a fregiarsi di quel titolo di gentiluomo che prima usurpava. "Signori'', insomma, si è - o si diventa - per "diritto morale". Questo è il "messaggio" che Richardson affidava alla storia di Pamela; e che esso fosse centrale nel suo progetto narrativo è dimostrato dal fatto che quasi tutto il secondo volume è dedicato alla "questione matrimoniale". È qui che Richardson gioca la sua carta più impegnativa.
La gioca con grande prudenza (non sufficiente comunque a evitare l'imbarazzo di alcune tra le sue stesse più fervide ammiratrici): perché mentre Pamela, nonostante le dichiarazioni di uguaglianza, rimane ossequiosamente ligia alle differenze di classe - prima accusando Mr B. di "degradarsi" cercando di sedurre una "serva" come lei, poi rammentandogli la disdicevolezza di un matrimonio fra disuguali (lo status, dopotutto, non è l'anima), infine, davanti all'altare, facendogli una riverenza e dicendogli "Grazie, signore" -, chi compie il vero atto "sovversivo" trasgredendo le regole e infrangendo il codice sociale è Mr B. Che sia lui, naturalmente, non è dettaglio irrilevante: l'uguaglianza (di status se non di anima) deve essere "concessa" - dal superiore all'inferiore, dall'uomo alla donna -, non già deve essere pretesa o, tanto meno, conquistata.
Richardson, insomma, ci teneva a non passare per rivoluzionario. Se la borghesia - ecco quanto voleva far capire ai suoi (più ricchi e magari blasonati) lettori - aveva il diritto di salire socialmente "perché" detentrice di una più alta moralità, l'aristocrazia non aveva nulla da temere per il proprio rango "purché" facesse sua quella stessa moralità. E tuttavia, la cautela di Richardson non bastò a tranquillizzare Fielding, la cui ideologia sociale era molto più "statica "e conservatrice. L'ordine della società si regge su una gerarchia che non deve essere violata, su distinzioni che devono restare nette e salde, pena la caduta nel disordine o, come si suol dire, nel caos. Amare ci si può anche fra disuguali ma sposare ci si può - e ci si deve - solo fra uguali (e infatti nei romanzi di Fielding l'agnizione interviene sempre, provvidenzialmente, a evitare la "mésalliance").
Il terzo motivo di rigetto ha a che fare con la grafomania di Pamela. Carta penne e inchiostro stanno in cima ai suoi pensieri (appena un gradino sotto la "virtù"), e qualunque cosa le accada, dalla più inoffensiva alla più terrificante (o che tale le sembra), eccola precipitarsi in camera per scriverla a qualcuno: al "caro padre" e alla "cara madre", a Mr B. e al parroco Williams, a chiunque insomma si presti a fungere da destinatario; e se non c'è nessuno a portata di penna, allora la scriverà a se stessa, trasformando la lettera in diario, salvo, poi, ritrasformare il diario in lettera - perché ciò che scrive "deve" essere mostrato, la sua "intimità" "deve" essere esibita.
Lettere su lettere, lettere proprie e lettere altrui, lettere spedite (o non spedite) e ricevute, copiate e ricopiate, messe da parte registrate e inventariate come in un gigantesco archivio: l'archivio - il mausoleo - di Pamela Andrews. Ma se la scrittura è per lei una vera e propria ossessione (narcisistica e persecutoria come tutte le ossessioni), lo è perché ogni cosa, ogni gesto, ogni evento devono trasformarsi in parola, in segno grafico, per essere, non già (come voleva la tradizione puritana) analizzati e giudicati dalla coscienza, ma semplicemente "vissuti"."
"La scrittura non trascrive la vita: la sostituisce, la "fa". E questo è un elemento di straordinaria novità/modernità (o postmodernità?) del romanzo di Richardson. Lo è anzitutto dal punto di vista narrativo, perché qui per la prima volta - come osserva Guido Fink - la lettera diventa ciò che esemplarmente (benché diversamente!) sarà nelle "Liaisons" "dangereuses": motore dell'azione, generatrice del "plot" (è infatti leggendo le lettere di Pamela che Mr B. si pente, ed è leggendo la lettera del pentito Mr B. che Pamela decide di amarlo). Ma lo è anche per le prospettive che apre su un tema, quello dell'"écriture", oggi (o già ieri?) fin troppo discusso, discettato e delibato dai più sofisticati (e spericolati) critici "teorici".
Con buona pace, naturalmente, di Fielding, che nella grafomania dell'eroina richardsoniana vedeva solo, più prosaicamente, l'ombra lunga della mistificazione. Sostituendo i segni alle cose, ricoprendo i fatti con un reticolo di parole, la scrittura crea una realtà "fittizia", una vita "falsa", che alla fine viene però scambiata per quella vera. Artefice e al tempo stesso prigioniera del suo monumentale archivio di "lettere" (nel senso alfabetico ed epistolare del termine), Pamela si costruisce un'identità immaginaria che è, propriamente, un'identità "romanzesca". "Oh, mia brava ragazza!", le dice a un certo punto Mr B., "vedo che hai fatto buone letture; fra tutti e due prima di aver finito metteremo insieme una bella trama per un romanzo".
Una trama da romanzo: paziente e tenace, meticolosamente sistematica, con le sue lettere Pamela (che prima di troppo scrivere ha troppo letto) ricama un grandioso, fantastico scenario all'interno del quale lei stessa e Mr B., i genitori e il parroco William, Mrs Jervis e Mrs Jewkes, insomma "tutti quanti"," "diventano protagonisti di un'avvincente "love story "che è solo il frutto dell'uso allucinatorio - e manipolatorio - della scrittura. Lo stesso che abbacina e irretisce i suoi lettori, rendendoli incapaci di distinguere, nel "dolcissimo, adorabile, graziosissimo libretto" che ne racconta l'edificante (e gratificante) vicenda, ciò che è vero da ciò che è (cattiva) letteratura. Di qui la "controscrittura" di "Shamela": che non solo pone "nella giusta e veridica luce" le "arti sopraffine di quella giovane intrigante", ma "svela[ndo] e debitamente confuta[ndo]" le "svariate e famigerate menzogne e distorsioni" contenute nel libro che a lei s'intitola, ne demistifica la retorica letterarietà. Ma di qui anche, nei posteriori romanzi di Fielding, la scelta di esibire sempre, alla luce del sole, l'"artificio "della narrazione: proprio per evitare che i suoi lettori - come le lettrici di "Pamela" - dimentichino di avere fra le mani un libro e finiscano a scambiare le finzioni della letteratura con le realtà della vita.
La grafomania di Pamela non è però, da ultimo, quella stessa di Richardson: narcisistica, ossessiva, persecutoria, e soprattutto indecentemente prolissa - cioè a dire, per Fielding, "moderna"? Ecco allora le cinquanta pagine di "Shamela" contrapposte alle seicentocinquanta di "Pamela" (che il terzo e il quarto volume, usciti l'anno seguente e per il momento risparmiati al traduttore e al lettore italiano, avrebbero raddoppiate!): una lezione di "stile" (classico) impartita all'insegna del motto "mega biblion mega kakon.*
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