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Bernardo di Chartres diceva che i posteri sono, in rapporto a coloro che li hanno preceduti, come nani sulle spalle dei giganti: vedono più in là. Così Graziano Lingua, alle prese con un tema con cui si sono misurati nomi che fanno tremare le vene ai polsi (da Döbschutz a Schönborn, Kitzinger, Mango e Belting), è riuscito laddove lavori precedenti hanno in parte fallito, coniugando e compenetrando filosofia, teologia e storia dell'arte.
Il libro non vuol essere una storia dell'icona, ma è dedicato al "pensiero iconico", alla teoria dell'icona nel cristianesimo orientale, in cui la questione dell'icona costituisce la comprensione complessiva dell'evento cristiano e gioca un ruolo centrale all'interno della chiesa e della società. Lo studioso ha organizzato il volume in due parti, una prima dedicata allo statuto dell'icona nel cristianesimo delle origini e a Bisanzio, una seconda più specificamente incentrata sui filosofi religiosi russi, i sofiologi. Nella prima parte, in cui percorre la storia dello statuto dell'icona (che è cosa diversa dall'immagine, che trae origine dalla semplice mimesi di ciò che si vede, laddove l'icona trae origine dall'invisibile), Lingua evidenzia come il problema non sia costituito dalla versione "debole" dell'icona, cioè il suo uso didattico-narrativo (la Biblia pauperum), quanto proprio dalla soluzione "forte", legittimata dalla dottrina dell'Incarnazione, in cui l'immagine si fa portatrice della pretesa ostensiva e rivelativa che la fa essere canale di comunicazione tra l'umano e il divino. Interessante è la parte dedicata al rapporto dell'icona con l'idolo, "l'altro dell'icona" e "nell'icona": proprio sulla distinzione tra idolo e icona il cristianesimo costruisce in parte la sua identità versus il paganesimo.
Alla luce di queste brevi considerazioni, è chiaro che un momento centrale nell'elaborazione della teologia dell'icona è il Concilio di Calcedonia del 451, in cui la cristologia "ortodossa" della doppia natura di Cristo, umana e divina, trova il suo compimento, e che il protagonista della difesa delle icone sarà un campione del calcedonismo, Giovanni Damasceno. Al termine della parte dedicata all'iconoclasmo, l'"eresia" che a Bisanzio condusse una lotta senza quartiere contro la venerazione dell'icona e che alla fine venne sconfitta dal partito iconofilo, l'autore mette in evidenza un aspetto, mi pare, nuovo, che spiega quella che è sempre stata criticata come la fissità e ieraticità dell'arte bizantina, di contro alla creatività occidentale, e cioè il rispetto di un canone: secondo Lingua il canone, la norma fa della scelta kenotica di Cristo di lasciarsi vedere e disegnare la vera causa dell'icona.
La seconda parte è invece dedicata alla rifioritura del pensiero iconico in Russia nel XX secolo a opera dei pensatori della cosiddetta "Rinascita filosofico-religiosa", appartenenti all'"Età d'argento", cioè Bulgakov (la cui teologia viene condannata dal Patriarcato di Mosca), Florenskij e Trubeckoj, cui si aggiungono Uspenskij, Losskij, Paul Evdokimov, in seguito quasi tutti anime del Saint-Serge di Parigi. La riscoperta dell'icona conduce questi pensatori a interrogarsi sul perché si sia abbandonato il canone bizantino in Russia e la colpa viene attribuita al Rinascimento occidentale, che ha introdotto il naturalismo, cui ha ceduto anche l'iconografia russa a partire dal XVI secolo. In particolare Florenskij propone, contro l'arbitrio della creatività, un nuovo concetto di canone, inteso non come legge che deve essere osservata, ma come insieme di "simboli regolatori" idea, questa, che ritroviamo nel simbolismo russo , cioè le regole pratiche e le forme prototipiche, tradotti negli stessi gesti ripetuti o nelle medesime immagini che vengono continuamente copiate. L'icona è dunque, per dirla con Florenskij, non una "rappresentazione", bensì "un'onda propagatrice o una delle onde propagatrici della realtà stessa che l'ha suscitata", e l'artista non è colui che produce l'icona, ma, colmo di sofia, contempla l'archetipo ed entra in contatto con il divino. Rosa Maria Parrinello
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