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Alcuni fra gli ultimi lavori di Massimo Onofri (questo e Il suicidio del socialismo. Inchiesta su Pellizza da Volpedo, Donzelli, 2009; cfr. "L'Indice", 2010, n. 4) stanno a dimostrare un ampliamento di ambiti e metodi d'indagine rispetto a quelli cui il critico viterbese ci aveva abituati. In questo che potremmo individuare come un suo nuovo programma di ricerca, Onofri individua alcuni punti di intersezione su cui convergono letteratura, poesia, tradizioni orali, pittura, cinema, scultura, retoriche del discorso pubblico. Da questi nodi reticolari Onofri non più solo italianista, ma iconologo e mitologo fa diramare le sue inchieste, divise tra filologia, il "paradigma indiziario" di cui parlava Carlo Ginzburg e una nervosa, intuitiva sensibilità intorno ai punti dolenti, e probabilmente insanabili, della storia nazionale. Non per nulla, poc'anzi, si accennava al ruolo anche di mitologo che Onofri ha scelto di ricoprire, nel corso di queste centoquaranta pagine di serrato corpo a corpo con una delle epopee fondative della nazione: vale a dire quella garibaldina. Laddove, in quest'ultimo aggettivo, confluiscono tanto il condottiero quanto i suoi Mille.
Il punto di partenza è dato dalle scelte, operate sempre con una mano sicurissima, con cui Onofri esemplifica la genesi, l'evoluzione e, infine, la dissoluzione della comunque più duratura mitologia risorgimentale. Così, attraverso pagine che si leggono come una trasvolata su territori apparentemente eterogenei, Onofri antologizza da par suo i momenti che meglio fotografano nascita e metamorfosi di un eroe semidivino. Garibaldi, pertanto, è la figura ieratica e benedicente, con le mani stimmatizzate, di una litografia circolante all'epoca della Repubblica romana. Oppure la personalità aureolata che, secondo l'Abba delle Noterelle, "aveva accesa la fantasia delle monache palermitane, le quali ne diventarono santamente innamorate".
Onofri, dunque, mostra assai bene la necessità intrinseca a questo processo di mitizzazione e quanto abbia a che fare con la dinamica di un "Risorgimento che si è concluso epperò, concludendosi, ha anche edificato il suo Pantheon con le sacre reliquie". Abbiamo a che fare, insomma con "la nazione, finalmente una, con le sue mitologie fondative".
Per chi, come Onofri, padroneggi la lezione dell'antropologia e della storia delle religioni, viene immediato il parallelismo con i rituali di fondazione che, nelle culture premoderne, presiedevano alla perimetrazione ed edificazione di una città nuova. L'essere umano, animale simbolico in ogni epoca e sotto ogni cielo, riproduce il medesimo meccanismo mitopoietico anche nel momento in cui è una nuova unità statale-nazionale a edificarsi, con ciò dando vita alle proprie liturgie di legittimazione e auto-glorificazione.
L'Onofri mitologo è però troppo smaliziato decostruttore di procedimenti retorici per non avere acuta coscienza che la mitizzazione del Garibaldi storico non può non comportarne la contestuale destorificazione. L'eroe, incielato nella Pleiade dei padri fondatori, diventa un'astrazione quasi senza rapporto con la sua effettiva realtà e, quindi, piegabile a ogni uso. Lo evidenzia benissimo Onofri, in un passo di esemplare nitidezza che merita la citazione testuale, allorché egli viene a scrivere dell'allestimento "di un dispositivo retorico e litografico secondo cui, alla proiezione monumentale dell'eroe, corrisponde però un effettivo svuotamento di senso della sua identità storico-politica: laddove un uomo di parte, pur con tutte le sue contraddizioni, si trasforma in icona conciliante e conciliata, capace di intercettare i più diversi materiali ideologici".
Garibaldi come forma mitologica vuota e, dunque, inevitabilmente predisposta ad accogliere qualsiasi contenuto. Con il che vengono a essere soddisfatte tutte le precondizioni per il verificarsi di ciò che uno dei sommi mitologi del Novecento, Karoly Kerényi, ha definito come l'uso politico delle mitologie. Vale a dire un'accorta strategia mistificatoria che distorce, "a freddo" e a tavolino, il genuino sostrato simbolico e immaginativo del mito (penso al Garibaldi istintivamente sacralizzato, dalla cultura popolare delle trasteverine, come un redivivo Nazzareno), per piegarlo, invece, a mero strumento di propaganda. A precedente esemplare che riverbera il suo prestigio di archetipo su un'ideologia, divenendone ulteriore fonte di legittimazione.
L'Onofri storico della cultura e iconologo ha, qui, buon gioco nel demistificare la macchina mitologico-propagandistica allestita nel ventennio, che legge nel garibaldinismo la rigorosa continuità tra Risorgimento e fascismo, contrapponendo l'epica in camicia rossa al liberalismo e al parlamentarismo. Il tutto senza che Onofri trascuri o minimizzi il dispositivo retorico montato, con una polarità esattamente opposta, in uno degli episodi figurativi salienti che abbiano riguardato, nel Novecento, l'epopea garibaldina vista con occhi "progressivi". Mi riferisco alla grande tela La battaglia di ponte dell'ammiraglio di Guttuso, a proposito del quale Giulio Carlo Argan sentenziò: "Guttuso non ha voluto rappresentare un episodio della spedizione dei Mille, ma la continuità della lotta popolare, degli eterni garibaldini contro gli eterni borbonici". Laddove il riferimento al garibaldinismo si associa e si salda al Garibaldi iconizzato, come simbolo del Fronte popolare, sulle schede elettorali del 1948.
Fin qui, dunque, la mitologizzazione e ideologizzazione dell'epopea garibaldina, così come declinata dalle egemonie culturali che si alternarono nella vicenda postunitaria. Un'epopea però, ci avverte Onofri, fatalmente destinata a infrangersi. E non per un naturale sfaldamento a opera del tempo, ma per una sorta di lenta, inarrestabile corrosione interna, derivata da qualcosa di simile a una malattia congenita del marmo da cui, se ci è lecita la metafora, il Garibaldi monumentale era stato ricavato.
Qualcosa che ha a che fare con una speranza tradita; con un Risorgimento senza rivolgimento morale. Con una mobilitazione collettiva rifluita nel disinganno per un compromesso, al ribasso, fra le ragioni dell'espansionismo sabaudo e i concreti interessi dei gattopardi meridionali. E intervengono, qui, le pagine più partecipi e belle del saggio; quelle, per dirla con Sciascia, "di filologia non disgiunta dall'intuizione" e, aggiungerei, da un'incisività stilistica non comune. Come quando Onofri rivive e fa rivivere i dipinti di Gerolamo Induco, con un Garibaldi presago e "affacciato sull'abisso della sua stessa catastrofe". O quando chiama in causa il Pirandello di I vecchi e i giovani, allorché il garibaldinismo sopravvive e si deforma, nella mente di un vecchio reduce della spedizione, come "l'involucro vuoto di un'astrazione patetica e delirante". Per non parlare dei Viceré di De Roberto, assunto da Onofri, a ragione, come libro decisivo e irrinunciabile, in cui l'indimenticabile Consalvo Uzeda escogita la formula, davvero gattopardesca, che concilia l'inconciliabile: la "monarchia democratica dei Savoia". Una formula da intendere come epitaffio dell'epopea garibaldina. Almeno quanto quella, più greve, messa sempre da De Roberto in bocca a un altro suo personaggio: "L'Italia è fatta. Ora facciamo gli affari nostri".
Vladimiro Bottone
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