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Io mi sono sempre chiesto perché Mann abbia voluto il riferimento a Schoenberg dodecafonico, per evocare il mito faustiano del potere creativo e la tragedia nazista che lo stesso Schoenberg ha del resto ampiamente subito. Giovanni Piana, nel suo studio su Mondrian, suggerisce un'illuminante analogia tra la razionalizzazione che da espressionista conduce il pittore all'astrattismo geometrizzante, e la matematicizzazione che lo spazio sonoro schoenberhiano subisce dalla pantonalità al metodo compositivo con dodici note. Non vi è forse nel delirio nazista un impeto razionale assoluto? Non è stato il nazismo espressione perversa di una controllo razionale estremo? Non è la dodecafonia, rispetto all'espressionismo di Erwartung, di Pierrot Lunaire, una rimozione del caos interiore che si configura come meccanismo di difesa, di controllo?
Non entro nel merito del libro ma nel merito della recensione qui riportata. Recentemente ho letto un saggio di Andrè Neher ( Faust e il Golem. Realtà e mito del Doktor Johannes Faustus e del Maharal di Praga) edito dalla Giuntina. In esso la ricostruzione della diatriba fra Mann e Schoenberg viene ricondotta a temi che sovrastano la rescrittura qui fatta in termini di pettegolezzo e piccinerie. Il protagonista faustiano del romanzo di Mann era appunto impersonato attraverso la trasposizione dalla realtà del musicista esule ebreo Schoenberg, non ci pare così assorbibile con leggerezza una tale operazione di transfert delle sciagure della Kultur germanica, a fine tragedia della seconda guerra mondiale. Consiglio allora la lettura di quel saggio di Andrè Neher ai lettori.
Recensioni
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recensione di Cases, C., L'Indice 1993, n. 9
A prima vista la celebre controversia qui raccontata attraverso le testimonianze epistolari, gli articoli di Schönberg e un saggio del musicologo tedesco Bernhold Schmid rientrerebbe nel libro tutto da scrivere "sulla piccineria dei grandi uomini". Pierino, in questo caso, si rivela Schönberg, il quale alla pubblicazione del "Doctor Faustus" (1948), senza leggere il libro (ciò che già dice molto sul carattere del musicista), prese cappello perché il protagonista del romanzo Adrian Leverkühn, sviluppava la teoria dodecafonica del musicista viennese (che Mann aveva appreso soprattutto da Adorno) senza citarne la fonte. Si aggiunga che Mann aveva dedicato una copia al compositore chiamandolo "l'autentico" ('der Eigentliche'). Dunque, se lui era il modello, il "vero" Leverkühn, avrebbe dovuto finire nella pazzia come Nietzsche, che era il prototipo di Leverkühn nella parabola della vita, e la sua musica sarebbe stata gravata da questa ombra. Di qui le ire del musicista, che in un ameno scritto satirico immagina che la posterità, sulla scorta del romanzo di Mann, ritenga che costui sia il vero inventore del sistema dodecafonico e che lui, Schönberg, non abbia fatto altro che applicarlo. Che Leverkühn e la sua tecnica non fossero Schönberg e la sua tecnica, ma ne fossero soltanto ispirati, non gli poteva entrare in testa. Anche il pacifico Mann, tallonato dall'avversario, fu costretto alla rottura, che divise la comunità degli emigrati tedeschi in due campi opposti, tra cui mediò l'infaticabile Alma Mahler-Werfel. Grazie a lei Mann si indusse a fare aggiungere una postilla in cui riconosceva la tecnica dodecafonica esposta nel romanzo come "proprietà spirituale" di Arnold Schönberg, "un compositore e teorico contemporaneo" Apriti cielo! Questa postilla, anziché sopirle, rinfocolò le ire del bollente musicista, che scrisse nel suo stile epigrammatico, formato su quello di Karl Kraus "Naturalmente fra venti o trent'anni si saprà chi dei due era contemporaneo dell'altro".
Che tra i due dovesse essere Mann a servire da punto di riferimento, Schönberg non lo poteva tollerare. Il lubecchese era però tanto compassato quanto l'altro era suscettibile. In una lettera della fine del 1949 gli scrive: "Lei sta dando battaglia a un fantasma della sua fantasia che non sono io. Nessun desiderio di vendetta nasce in questo modo. Se Lei vuole proprio essermi nemico, non Le riuscirà però di farmi nemico Suo". Schönberg si induce a più miti consigli e propone a Mann di "seppellire l'ascia di guerra", il che avviene gradualmente perché il compositore non vuole abbandonare da un momento all'altro i suoi sostenitori durante la guerra stessa. E si può tranquillamente immaginare che la rinuncia a continuarla sia dovuta essenzialmente alla consapevolezza che i due giganti si stavano comportando come i nani di cui si spartivano il plauso. Se l'albagia di Schönberg era difficilmente superabile, quella di Mann si celava sotto la sua cautela di gran signore. Ma quando egli definiva uno scritto dell'avversario un 'character document' gli riconosceva implicitamente una grandezza di carattere che a lui forse mancava. Poteva sbagliare, ma sempre dando prova di quella grandezza. Del resto i due oltre al genio avevano in comune un'altra cosa: l'età. Schönberg era nato nel 1874, Mann nel '75. "L'uno o l'altro - scriveva il primo al secondo - festeggerà prima o poi gli "ottanta"...: una buona occasione per dimenticare tutte queste piccolezze, e definitivamente". Agli ottanta arrivò solo Mann. Ma entrambi, in America, abitavano sul famoso Sunset Boulevard, e il prefatore dà una lista impressionante di tutti gli intellettuali tedeschi che allora vi abitavano. Davvero tramontò laggiù una grande cultura che non tornerà più. Forse i due grandi ci vollero offrire su un piatto d'argento il primo episodio di una nuova cultura in cui anche dei grandi interessano solo i pettegolezzi e le piccinerie.
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