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scheda di Moro, C., L'Indice 1992, n. 5
"Conosco una giovane contessa, ornamento dei nostri salotti, il cui pensiero non è altro che un'orgia di sussulti discontinui, il ragionamento un ciclone di impressioni, il giudizio un clicchettio di immagini". Corre l'anno 1918: questo verdetto compare nel 'pamphlet' fresco di stampa di un polemista che ha da poco superato la cinquantina. Senza nominarla, Julien Benda allude ad Anna de Noailles, appassionata poetessa alla moda e amica di Proust. È una, e non certo la più nota, tra le numerose figure di contemporanei che si affacciano in "Belfagor", tutti sacerdoti ideali dell'antico dio ebraico della sensualità evocato dal titolo. Nel ritratto di gruppo, insieme a Péguy, Claudel, Suarès, Rolland, Maurras, Gide, Alain, Valéry, c'è solo un 'altra signora, l'onnipresente Colette. Ma sono le donne (d'alto rango o borghesi), che la crescente occupazione dei mariti ha reso ormai destinatarie quasi esclusive delle opere d'arte, a imporre quel tono intellettuale, estenuato e incantatorio che secondo Benda perverte irrimediabilmente il gusto della buona società francese. Tesi scandalosa, alla cui illustrazione soccorrono ragioni estetiche, avversioni filosofiche, note di costume e considerazioni epocali: l'intero armamentario stipabile in un libello di cento pagine, glosse di autocommento a parte.
Il punto di vista di Benda è la "virilità dello spirito"; la sua collocazione ottimale il Seicento di Cartesio, Pascal e Spinoza, ma anche di madame de Sévign‚, ospitata tra i grandi per la sua razionalità sobria e autoriflessiva. Più tardi ecco farsi strada il culto del cuore, fino a gettare discredito sulla comprensione intellettuale. Con Bergson l'impopolarità del concetto giunge al culmine e diventa pervasiva; già idolo polemico di Benda nei saggi del 1912 e 1914, Bergson è ritenuto colpevole di aver trasformato un principio di conoscenza - l'intuizione - nell'unico tramite per cogliere la realtà, per identificarsi con essa: abolita la distinzione tra soggetto e oggetto, viene meno la funzione dell'intelletto giudicante; alla consistenza dell'io, propiziata dai sensi chiari della vista e del tatto, si sostituisce il "decentramento della coscienza" che vaga nell'indeterminatezza di udito, olfatto e gusto, e trova espressione adeguata nella musica. Contrastare la decadenza di una società panlirica e femminea, sembrerebbe troppo eroico, o forse velleitario a Benda, tanto più che nel declino "alessandrino" egli riconosce una legge universale delle civiltà. Tuttavia non rinuncia da 'esprit fort', all'esercizio della critica. E come osserva giustamente nel documentato saggio conclusivo il curatore Lauro - riprendendo i rilievi di Benjamin all'opera più nota di Benda, "Il tradimento dei chierici" (1927) e al "Discorso alla nazione europea" (1933) - proprio nell'uso di una ragione astratta e classica, predialettica, stanno il fascino e il limite di questo argomentare. Dalla parte del fascino si collocano certi appunti, come la pagina sullo choc nell'arte, che non sarebbero spiaciuti ad Adorno.
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