Shosha

Certi incipit assomigliano a mani frettolose che brigano per catturarti: le loro parole sono come artigli, e chi le apre, leggendo una frase, si trova già incatenato. "Io venni educato sulla base di tre lingue morte - l'ebraico, l'aramaico e lo yiddish e di una cultura che si sviluppò a Babilonia: il Talmud". Impossibile resistere al fascino antico di queste parole: bisogna continuare e andare avanti. L'ho fatto con buona parte dell'opera di Singer: nemmeno una volta mi ha attraversato l'ombra del pentimento.

Sono rimasta delusa, un romanzo ricco di atmosfere e personaggi, ma fine a se stesso. Peccato, questo autore, insieme al fratello Israel, è tra i miei preferiti.

L'edizione che conservo in casa è quella di un vecchio Oscar Mondadori col disegnino verde sulla costola, ma è ininfluente. Nulla sensibilmente cambia da edizione a edizione quando la traccia che questa rilettura mi ha lasciato nel cuore ha rifatto intatti quei momenti più giovani nei quali lessi il libro. Ed è stata la stessa forza emotiva a risorgere autentica nel corpo e dal corpo della storia, che è un ritratto di donna bambina davvero indimenticabile. Singer pare aver scritto quest'opera come suonando un'arpa, misurando delicatezze e passaggi con la maestria di un cantore supremo. Shosha è un'anima riuscita, candida, una vetta assoluta nella potente e variegatissima geografia umana inventata e descritta dall'autore. Un capolavoro di tenerezza.