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"Un contributo di prim'ordine". Con queste parole Francesco Perfetti, discepolo di De Felice, anticipava l'imminente uscita di un inedito di Gioacchino Volpe nell'ampia rassegna, invero problematica, e con il sorprendente titolo Fu davvero grande guerra?, pubblicata il 1° novembre 1998 sul "Sole 24 Ore". In un'intervista sull'"Unità" di qualche giorno dopo, sullo stesso argomento, Mario Isnenghi, problematico a sua volta, rivelava un piglio patriottico decisamente più netto. Il big game storiografico-politico sta un po' scompigliando le carte. Ciò è un bene. Edito ora nella collana diretta dallo stesso Perfetti, il testo di Volpe si rivela proprio un importante contributo di prim'ordine. Non di più. Il che, data la caratura del personaggio, può sembrare limitativo. Ma non è così. Commissionatogli il 10 giugno 1921 da Luigi Einaudi e dalla Fondazione Carnegie per la pace internazionale (che prevedeva la pubblicazione di una storia economica e sociale di tutti i paesi in guerra), il libro fu più volte interrotto, anche a causa di altri interventi sulla Grande Guerra, sino a che, nel 1931, il contratto fu sciolto. La faccenda è raccontata in modo inesatto nel risvolto di copertina. Non leggetelo. Leggete la bella introduzione di Anna Pasquale. Il testo, incompleto oltre che incompiuto, risulta comunque, pur essendo ampio e ricco di squarci d'impressionante lucidità, inevitabilmente rapsodico. Soprattutto non è quella storia del "popolo italiano" che pretende di essere e che Volpe avrebbe ben potuto scrivere. È invece una storia di ciò che stava a cuore al nazionalista. Una storia cioè dello Stato debole che cerca di rispondere alla sfida finanziaria, annonaria e industriale. È una storia soprattutto della politica estera, e in particolare della questione adriatica e di quella balcanica (non certo il principale teatro italiano di guerra), cui è dedicata, classicamente, una parte notevole del volume. È una storia di élites dirigenti, di caduti illustri (bellissime le pagine su Scipio Slataper, su Enrico Toti e altri), di ufficiali e di soldati in guerra (ma poco), di governi (Salandra viene difeso), di partiti e di movimenti politici, di clero e di cattolici influenti. È un attacco alla democrazia, la cui funzione "è minare lo Stato e sempre invocare lo Stato". È una riflessione, un po' preoccupata e un po' compiaciuta, sull'ingigantirsi delle prerogative economiche pubbliche. È inoltre una rivendicazione della guerra intesa come continuo atto sovversivo contro "il nemico interno", vale a dire contro il parlamento rimasto giolittiano e criptoneutralista. La guerra, del resto, insegna che si può fare a meno della democrazia. Straordinarie, infine, sono le poche pagine, piene di diffidenza, sulla nuova sfrontata classe operaia che la guerra sta generando. Meglio dunque, oggi, questo testo "di prim'ordine" che un libro organico. Apprendiamo infatti moltissimo su Volpe e sul nazionalismo italiano. Bruno Bongiovanni
scheda di Bongiovanni, B. L'Indice del 1999, n. 03
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